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pp. 203 - 14,5 Euro
Ed. GRAFITE
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“MORS TUA VITA MEA.

Espianto d’organi umani: la morte è un’opinione ?

dell'ing. Ugo TOZZINI
Primo Premio per la “saggistica inedita” al
3° PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE Tito Casini


La dedica
Al piccolo Gabriele, il neonato anencefalico di Torino voluto da Dio come uno di noi anche solo perché vivesse, come una rosa, lo spazio d'un mattino, ma che il talento dell'uomo predestinò a nascere solo per gli altri, per acclamarlo donatore, suo malgrado, nel nome della solidarietà, dell'amore, della legge e dell'abrogazione del quinto comandamento. Il ricordo della sua vita breve e speciale, di creatura divina originale, bussa tenace alla mente gelida di chi gli negò qualità di persona vera, come il profumo persistente e gentile dell'esotico sandalo, che imprime la sua fragranza perfino sull'ascia algida, iniqua e rea che l'ha reciso.

L'autore.
UGO TOZZINI, nato e residente a Torino, di professione ingegnere, è sposato, padre di quattro figli e oblato benedettino presso il monastero francese di Le Barroux. Confessa che intraprese gli studi teologici per passione e per necessità: per attrezzarsi a fare la ronda alla navicella della propria fede antica scossa dai marosi post-conciliari. Da un suo saggio inedito premiato al III Premio letterario internazionale Tito Casini e dalla sua tesi di teologia bioetica, licenziata summa cum laude, nasce l’indagine di quest’eclettico collezionista di dubbi, inquietudini e rovelli ai confini fra la vita e la morte, fra la ragione e la morale. Sull’equiparazione della morte cerebrale alla morte vera le conclusioni della sua inchiesta sono negative, "not politically correct", ma molto ben documentate. Il suo parlare è sovversivo, scomodo e "altro" da quelli comunemente graditi. Intruso tra i dotti della scienza e della morale, reclama almeno la rivolta del buonsenso, che - come nota il Manzoni - c’è, anche se spesso se ne sta nascosto per paura del senso comune.

Presentazione dell'opera
Il saggio Mors tua Vita mea, in vendita in Italia, analizza da un versante critico e dichiaratamente controcorrente un tema di bruciante attualità, non sempre da tutti correttamente conosciuto, l’espianto d’organi vitali umani, nei suoi molteplici aspetti medico-legali, bioetici, religiosi e laici.
L’opera, premiata al concorso letterario internazionale “Tito Casini” di Firenze, è stata oggetto di discussione di una tesi di teologia bioetica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Pontificia Università della Santa Croce in Roma, con votazione 90/90 summa cum laude.
L’autore è un ingegnere di Torino, sposato, padre di quattro figli e oblato benedettino presso il monastero francese della Sainte Madeleine a Le Barroux. Egli non esita ad autodenunciarsi come un intruso nel recinto della medicina e della bioetica, ma dimostra di non avere timori reverenziali né verso l’una né verso l’altra, anzi si destreggia con sicurezza in una fitta selva d’impervi dati tecnici, di riferimenti bibliografici specialistici, compresa la Summa di san Tommaso, confessando che “intraprese gli studi teologici per passione e per necessità: per attrezzarsi a fare la ronda alla navicella della propria fede antica scossa dai marosi post-conciliari”.
Punto focale è la risposta al quesito provocatorio che figura come sottotitolo del libro: La morte è un’opinione? Infatti, l’indagine del ricercatore è accentrata sul problema della morte cerebrale, o meglio dell’equiparazione della morte cerebrale alla morte vera.
I malati terminali, che aspettano spasmodicamente un organo di ricambio e affidano alla drammatica terapia trapiantistica le loro estreme speranze di sopravvivenza, è naturale che suscitino sentimenti di pietà e umana solidarietà, è giusto che esigano dalla scienza medica la più instancabile attività di ricerca e il più assiduo impegno terapeutico.
D’altra parte l’autore è sgomento di fronte alla cinica regola da giungla di quel mors tua vita mea, orribile ossessione umana, solo umana, con cui il malato terminale in stand-by aspetta che qualcuno muoia per lui. Perciò, se non altro per rendere giustizia al “donatore” cui pure la Costituzione italiana promette garanzia di pari dignità sociale, reclama la necessità di spostare l’attenzione, una volta tanto, dalle luci del trapianto alle ombre del fronte opposto. Anzi, parafrasando la discussa intitolazione di una celebre costituzione conciliare, egli premette che “l’inchiesta è volta semplicemente a scoprire il rovescio opaco di una medaglia lucida di trionfi, per contrapporre all’esultante gaudium et spes del trapianto, il mortifero luctus et angor dell’espianto”. Nel saggio si rivolge la più amorevole e tenace attenzione al paziente diagnosticato cerebralmente morto. Quest’ultimo, il paziente sollecitamente “curato” come magazzino di organi vitali, mentre intorno a lui fin troppo tempestivamente si scatena il solito tam tam mediatico che inneggia alla legalità, liceità e bontà dei trapianti, assurge al ruolo di protagonista del libro. Nella disperata lotta fra moribondi, lui è il pre-destinato di turno al ruolo involontario di donatore e di antagonista perdente, mentre gli altri malati terminali sono iscritti - dal ceto dei “buoni”, dalla scienza e dalla legge - nella lista d’attesa dei suoi organi vitali.
A fronte di questa crudele e ìmpari contrapposizione, in cui sono riconoscibili i connotati dell’agguato fra poveri, in cui uno è però più povero e designato in partenza come parte sicuramente soccombente, la ricerca è tesa a verificare l’attendibilità scientifica della definizione legale di “morte cerebrale” e la liceità morale della sua precoce equiparazione alla morte vera.
L’autore, doverosamente e in modo pertinente, rivendica con forza il diritto di far luce su quel moribondo indifeso e così in fretta condannato a concludere la sua vicenda terrena da una prognosi infausta spacciata convenzionalmente per una diagnosi, anzi per una constatazione di morte. A quel paziente, clinicamente tanto più apprezzato quanto più è detentore di cuore, fegato, polmoni, reni, pancreas e intestino perfettamente sani, la legge, il senso comune e il pragmatismo umano fanno la ronda per intimargli di arrendersi a irresistibili ragioni umanitarie. A lui, sottoposto al ricatto legale di una spina che in caso di diniego sarà staccata, di fronte al dilemma di una morte per soffocamento o per dissanguamento, viene offerta una resa onorevole e riservato il consolante titolo legalmente riconosciuto di donatore.
In fondo, irrimediabilmente incosciente com’è, non si è accorto di essere ormai, per legge, un cadavere, morto quindi a tutti gli effetti, o quasi. Tra l’altro conserva, è vero, la funzione procreativa e, se gestante, la capacità di portare a termine con successo una lunga gravidanza. Ma gli antropologi laici e progressisti, celebratori del mito della qualità e utilità della vita più che della sua intoccabile sacralità, considerano queste attività trascurabili come indizi di permanenza in vita in quanto surrogabili in laboratorio dalla superba onnipotenza scientista.
Il postulato della cosiddetta morte cerebrale (secondo cui la morte di un uomo coinciderebbe con lo pseudo silenzio del suo cervello) e le relative modalità d’accertamento medico-legale possono dirsi ineccepibilmente, universalmente e unanimemente accettati da tutta la comunità scientifica?
E’ credibile una definizione legale di morte basata sulla cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello, proprio dell’organo più misterioso e inesplorato che esista?
Potendo decidere, quale moribondo, il cui cuore batta regolarmente e il cui sangue circoli spontaneamente, accetterebbe in quelle condizioni di farsi rinchiudere in una bara per essere sepolto o gettato nel forno crematorio?
La morale tradizionale può dirsi superata? E se sì, da chi e da che cosa?
L’accorciamento di una vita priva di relazioni umane manifeste, può diventare un atto buono e “dovuto” se finalizzato al prolungamento di un’altra vita arbitrariamente privilegiata nel nome della “dignità” umana e della migliore qualità esistenziale?
E’ giusto tacciare di egoismo e inciviltà chi respinge a priori la qualifica di “donatore”, non volendo essere dimissionato per legge dal suo stato di vivente solo perché la sua vita residua, a causa di un presunto azzeramento delle attività cerebrali, sarà per convenzione considerata dai suoi simili insopportabilmente onerosa, qualitativamente insignificante e socialmente inutile?
Da chi, dove, quando e perché fu commissionata ad alcuni scienziati americani la ri-definizione della morte e l’arretramento dei paletti della vita con l’invenzione della “morte cerebrale”?
Perché la rivoluzione bioetica legata al concetto di “morte cerebrale” è stata accolta senza clamore, acriticamente, quando non addirittura con entusiasmo, sorprendentemente anche da coloro che in altri casi (si pensi alle battaglie contro l’aborto, l’eutanasìa e la “cosificazione” dell’embrione) continuano giustamente a difendere come sacri e intoccabili sia l’alba sia il tramonto di ogni vita umana?
Perché si discute tanto dello “statuto dell’embrione” e per nulla dello “statuto del morente”?
Perché il laicissimo Comitato Nazionale di Bioetica non riconosce anche al moribondo cerebroleso lo stesso diritto dell’embrione di essere “uno di noi”?
Intorno a questi e altri interrogativi si dipana l’avvincente ricerca dell’autore, tesa fra l’ammirazione per gli avanzamenti tecnologici, la perplessità di fronte a una scienza in crisi di verità e la preoccupazione per gli arretramenti morali sbandierati come conquiste, in un’appassionata legittima difesa dalla “lingua di legno” dei dogmi scientifici e dalle insidie del senso comune, noto prevaricatore del buon senso.

Il contenuto dell’opera si suddivide in cinque parti così articolate:
1.   Gli espianti d’organo e la nozione medico-legale di morte cerebrale.
      Le norme medico legali per definire la morte. Esame critico.
      L’ipotesi medica di partenza: postulato?
      Il criterio medico della morte cerebrale ha valore scientifico?
      Morte del tronco cerebrale? Dubbi e misteri.
      La comunità scientifica di fronte a lacune e contraddizioni.
      Morte cerebrale cronica.

Tra la definizione concettuale di morte cerebrale e i criteri operativi diagnostici attraverso cui detto evento viene di fatto accertato esiste un abisso d’interrogativi inquietanti e senza risposta. La legge italiana sull’equiparazione della morte neurologica al decesso definitivo si basa sulla presunzione di conoscere con assoluta certezza scientifica tutte le funzioni di un organo, il cervello, notoriamente in grandissima parte incognito e inaccessibile.
Una parte autorevole e qualitativamente importante della comunità scientifica ha dimostrato che il concetto-criterio di morte cerebrale è ambiguo e controverso. Perciò è legittimo considerarlo, in definitiva, per quello che è sin dalla sua origine: un’invenzione postulatoria, convenzionale e a-scientifica. Una definizione tesa a presentare come plausibile il prelievo mortifero di organi vivi da persone vive, ancorché moribonde, spacciate per decedute. Ce lo dicono le motivazioni ufficiali, ciniche e pragmatiche, del Comitato Ad Hoc di Harvard incaricato di inventare appunto la ri-definizione della morte in chiave utilitaristica.
Ce lo confermano i tardivi e poco convincenti tentativi apologetici con cui si è congetturato a posteriori sull’antiscientifico e antiteologico concetto-stampella di unità integrativa.
Come se non bastassero i dubbi e i quesiti irrisolti di parte del mondo medico, persino i numeri della scienza statistica da soli inviterebbero alla prudenza e darebbero torto ai sostenitori dell’infallibilità e della matematica certezza della sentenza di morte cerebrale. Infatti, se per assurdo esistesse la possibilità di fare autopsie in serie sui cadaveri di espiantati, atte a verificare l’esattezza assoluta di ogni diagnosi di morte cerebrale (cioè l’assoluta e completa distruzione del cervello), per avere la probabilità del 99,999% che non sia dichiarato erroneamente morto più di un vivo ogni 100.000 pazienti esaminati, occorrerebbe disporre di una serie ininterrotta di 1.151.289 casi di pazienti diagnosticati senza errore come morti cerebrali (verifica irrealizzabile).

2.   Gli espianti d’organo e la bioetica laicista. Superata la morale cristiana?
      I modelli antropologici-etici laicisti.
      Il “fallibilismo” della scienza.
      La vita e la morte nel pensiero classico.
      La vita e la morte negli espianti. Filantropia? Carità?
      La vita e la morte ripensate dai bioeticisti laici.

La cultura scientista del nostro tempo, pur insuperbita dalla millantata onnipotenza del suo sapere, deve riconoscere che la verità scientifica è oggi in crisi. La verità delle scienze sperimentali, in primo luogo di quelle che hanno per oggetto l’organismo umano e il mistero delle attività corali e cooperative dei suoi componenti, si rivela fallibile, congetturale e relativa, eternamente in cammino verso il suo superamento. L’errore è connaturato con la ricerca scientifica e con le sue applicazioni pratiche. E’ sempre in agguato, pochi hanno l’onestà di riconoscerlo pubblicamente e di preferirgli estrema cautela e prudenza, perfino quando la posta in gioco è altissima, come la vita di un uomo.
Nel giro di pochi anni, ad opera di Potenze già esportatrici in quasi tutto il mondo di nobili conquiste civili e umanitarie come l’aborto e l’eutanasia, si è consumata a livello planetario quella che i bioeticisti laici millantano come la più pacifica delle rivoluzioni nel campo dell’etica della vita e della morte. Con l’irruzione trionfalistica degli espianti-trapianti d’organo i tradizionali valori di sacralità di ogni vita sono inghiottiti dai flutti del più cinico pragmatismo, sovvertiti dalla proditoria violenza “socialmente utile”, ma rivolta contro l’uomo, specialmente quello più solo, vulnerabile, inerme, bisognoso d’amore.
La tradizionale e primordiale etica della sacralità della vita, sempre più decolorata e muta, sembra rifiutata come infantile, oscurata da una più adulta etica della qualità e utilità della vita.
Nel mondo secolarizzato e retto dal criterio di efficienza, sedicente ateo, ma in realtà idolatra, la medicina, la tecnologia, la legge, la politica, l’economia, la statistica e il calcolo delle probabilità minacciano di diventare le nuove divinità padrone dei nostri destini terreni. Sono loro che hanno deciso di sbarazzarsi della vecchia morale, accantonata come inservibile incaglio del progresso. A loro è data l’ultima parola per decretare quando una vita umana merita d proseguire il suo corso naturale e quando no.

3.   Gli espianti d’organo e la morale cattolica.
      Espianto e morte del donatore: quale morte?
      La morte dell’uomo: evento solo fisico?
      Morte cerebrale e perdita dell’unità integrativa.
      La morte, momento di crisi e di giudizio.
      Gl’interventi del Magistero della Chiesa.
      Pluralismo di opinioni e di comportamenti: un caso emblematico.

La riflessione bioetica sulla moralità cattolica dell’espianto d’organi umani è strettamente correlata all’accertamento della morte previa del donatore. Ma, quale morte? Non certo la controversa morte cerebrale, inventata dal pragmatismo moderno e presentata da una propaganda menzognera come “socialmente utile”. Bensì la morte vera, quella osservata con estrema prudenza dal clinico come cessazione di tutte le attività fisiologiche vitali, ma anche – in un ordine diverso e più alto – propriamente indagata dal filosofo e dal teologo come evento metafisico della separazione dell’anima dal corpo. Su di un evento metafisico, per definizione non osservabile empiricamente, è irragionevole che la prima e l’ultima parola spetti allo sperimentatore, anziché a chi indaga su piani che di quell’evento sono i più propri: il filosofo sul piano umano, attraverso l’evidenza della ragione, il teologo sul piano divino, mosso dalla fede nell’autorità soprannaturale della rivelazione.
Se è vero, com’è vero, che l’anima è spirituale e quindi non localizzabile preferibilmente in una parte del corpo piuttosto che in un’altra, tutta in tutto il corpo e tutta in qualsivoglia sua parte, essa continua a informare del suo principio vitale anche un corpo privo di attività cerebrale. Altrimenti si finirebbe per ridurre la vitalità della persona umana alla vitalità del suo cervello, accettando così il dualismo fra anima e corpo, fra vita del soma e vita dello spirito, principio già condannato dalla Chiesa.
Applicando il pensiero tomista, lo stato di un corpo una cui parte (per esempio il cervello) sia irrimediabilmente lesa, distrutta o mancante, impedirà a una potenza (per esempio il ragionamento e la conoscenza) dell’anima di estrinsecarsi, ma non impedirà all’anima di essere ancora tutta in tutto il corpo e in qualsivoglia altra parte del corpo, cioè di continuare a essere sostanzialmente e intimamente unita a questo. Il che consente di affermare che il morto cerebrale, il paziente convenzionalmente definito dalla scienza positiva cadavere a cuore battente, continua a essere “capace” di anima, continua a essere a tutti gli effetti una persona, una persona viva.
Gl’interventi del Magistero della Chiesa in materia di espianto di organi a cuore battente e sangue circolante sono rari e si limitano a raccomandare che i prelievi di organi vitali avvengano dopo la morte accertata del donatore. Non entrano però nel merito di quale morte e di quali metodi d’accertamento si tratti.
Nel passato PIO XII, rivolto ai medici rianimatori di Innsbruck, parlò di dubbio insolubile, in presenza del quale raccomandò che si dovesse sempre privilegiare la presunzione di permanenza in vita del donatore.
Più recentemente, GIOVANNI PAOLO II, rivolto ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze, ha voluto porre un freno ai trapianti indiscriminati esternando preoccupazioni a riguardo della morte neurologica, chiedendosi gravemente chi mai abbia l’autorità per stabilire con certezza che il donatore è veramente deceduto prima dell’espianto e non a seguito dello stesso.
Anch’Egli ribadisce il concetto del dubbio persistente del suo predecessore. Con inaudita severità il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Suprema Congregazione del Sant’Uffizio), card. J. Ratzinger, si rivolge al Concistoro di 112 cardinali su 124 che compongono il Sacro Collegio per dire tra l’altro: Quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma irreversibile saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo.
Va detto che l’Accademia Pontificia delle Scienze (che non ha però autorità magisteriale) è per lo più benevolmente disposta ad accettare la tesi donazionistica, anche se al suo interno non mancano membri che molto autorevolmente difendono la permanenza in vita del donatore. Due sono i motivi della desistenza dei bioeticisti cattolici e dei pastori d’anime favorevoli alla morte cerebrale: temono di contrastare il senso comune buonista e patiscono una sorta di “sindrome di Galileo” nei confronti della scienza.
Recentemente ha avuto molto presa sugl’indecisi la suggestiva teoria-stampella, pur autorevolmente confutata da scienziati e bioeticisti di fama, dell’unità integrativa, secondo cui il paziente privo di una manifesta attività cerebrale cesserebbe di presentarsi come un tutto unitario, coordinato, integrato e organico, e come tale non sarebbe più una persona “capace” di anima. Cosicché la morte di un uomo, anche secondo la mai abrogata accezione cattolica di separazione dell’anima dal corpo, coinciderebbe precocemente con la morte del suo cervello. Peccato che la teoria della morte neurologica importata dagli USA sia stata accettata ben dieci anni prima che la suddetta teoria apologetica dell’unità integrativa venisse enunciata.
Drammaticamente decisivo per connotare l’immoralità dell’equiparazione della morte cerebrale alla morte è il Rapporto, pubblicato sull’autorevolissimo Journal of the American Medical Association, che testimonia i motivi pratici per cui la Commissione Ad Hoc della Medical School di Harvard inventò la ri-definizione della morte in chiave neurologica: liberare posti in ospedale, eliminare le spese private e pubbliche di mantenimento di pazienti in irreversibile stato vegetativo persistente, sollevare i famigliari dal peso dell’assistenza e, soprattutto, reperire facilmente e legalmente organi vitali da trapiantare.
Posto che l’accorciamento di una vita umana è sempre un omicidio, indipendentemente dallo stato di salute del paziente, che cos’è la parola “donazione” se non un edulcorante espediente semantico atto a eclissare l’infrazione al quinto comandamento?
Abusato dai donazionisti, anche quelli sedicenti atei, l’impertinente riferimento evangelico a Gesù donatore della sua vita, per assimilare il consenso espiantatorio all’atto di carità più alto che ci sia, quello di donare la propria vita al prossimo.
A parte la bizzarra contraddizione in termini di un cadavere (il morto cerebrale dei donazionisti) che dona la sua vita, Gesù sulla croce beatificò forse i suoi carnefici, come benemeriti espiantatori della sua vita, anziché implorare per loro il perdono dal Padre “perché non sapevano quello che facevano”?.

4.   Gli espianti d’organo e la morale ebraica.
      Il concetto di morte e l’ortodossia ebraica.
      La morte cerebrale può essere accettata come criterio halachico di morte?
      Dibattito contemporaneo.
      Halacha e legge civile.

L’ebreo d’ogni tempo conserva il culto della sacralità dell’esistenza terrena come dono intoccabile di Dio. Il dibattito sulla liceità morale dell’espianto d’organi e quindi sull’accettabilità halachica della definizione medico-legale di morte cerebrale, perdura attualmente nel mondo ebraico e mette a confronto scuole di pensiero contrapposte.
Se, da una parte il Consiglio dei capi rabbinici d’Israele ha infine ufficialmente consentito – pur tra molte esitazioni, distinzioni e discutibili interpretazioni cliniche – la prassi del trapianto cardiaco, dall’altra parte si leva unanime la voce severa dei più autorevoli esponenti dell’ortodossia rabbinica, per contestare sia sul piano religioso, sia su quello clinico diagnostico, l’assimilazione della morte encefalica alla vera morte, equiparazione volta non tanto a servire la verità scientifica, quanto a inventare l’alibi legale di un possibile assassinio.
Secondo l’ortodossia ebraica la sentenza di un evento non solo fisico come la morte non è affidabile all’osservazione tecnica del medico, il quale, pur prezioso e insostituibile terapeuta, non ha competenza per imporsi nel campo delle valutazioni etiche e religiose.
La posizione rabbinica tradizionale riguardo al principio della sacralità della vita, indipendentemente dalla sua qualità e utilità, è rigorosa e nettissima.

5.   Gli espianti d’organo e la morale islamica.
      La legge islamica e l’etica medica.
      Dibattito sulla definizione di morte.
      Ulteriori elementi di controversia.
      Il commercio di organi: tolleranza.

Il tema della liceità del trapianti di organi è uno dei più dibattuti dalla moderna bioetica islamica, ove emergono le posizioni divergenti di due schieramenti contrapposti.
Da una parte sono schierati i Medici e i Legislatori, favorevoli alla prassi espianto-trapiantistica, cultori del duplice principio giuridico e pragmatico del male minore (meglio violare un morto che lasciar morire un malato) e della priorità (prima evitare il male e poi fare il bene).
Dall’altra parte sono schierati i Dottori della Legge e i Giuristi della Sharia, negatori di moralità all’atto espiantistico, in quanto violatore della sacralità del corpo (secondo l’hadith del Profeta: “spezzare l’osso di un cadavere è come spezzare quello di un vivente”).
Quanto all’accettabilità etica del moderno concetto di morte cerebrale e all’attendibilità scientifica dei criteri medici d’accertamento diagnostico dell’assenza di vita nel donatore, la controversia non manca di certo. Però s’avverte nel mondo islamico il timore di non sembrare abbastanza allineati al progresso tecnologico occidentale e alle sue “conquiste” etiche. Per questo motivo prevale la scelta di evitare il dibattito pubblico, anzi si riscontra una vera e propria censura mediatica della disputa sul concetto di vita e di morte e sulla novità, importata dall’Occidente, della morte cerebrale. Di fatto anche il mondo islamico si piega, con ipocrisia e pragmatismo, all’utilità della prassi trapiantistica, ignorando le ragioni dei cosiddetti “donatori”.
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feto encefalico
feto encefalico di 19 settimane

VARIE OPINIONI e LINK sul TEMA "Espianti e donazioni":

  • Recensione del libro di Tozzini dal sito UNAVOX.IT
  • Il caso del piccolo Gabriele fu seguito dalla "Lega Nazionale Contro la Predazione di organi e la Morte a Cuore Battente" (clicca per i particolari).
  • Dubbi sulla morte cerebrale di Rita Pennarola.
  • Il silenzio assenso del card.Dionigi Tettamanzi.
  • Il trapianto è vita di Carlo Barbieri.
  • Morte di Stato ed espianti
  • Spunti critici sui trapianti di Paolo Becchi
  • Questioni mortali di R.Barcaro e P.Becchi
  • La predazione di organi e le ambiguità di GIOVANNI PAOLO II di don Giuseppe Rottoli
  • In bilico tra scienza e Fede Il discorso del Papa ai trapiantisti e la problematica conciliazione dei trapianti con la morale e la dottrina cattoliche
  • Una discutibile iniziativa di Famiglia Cristiana

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