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Fenomeni franosi in Italia indotti da terremoti (secc.XIII-XX)
LE FRANE DI GROTTAMMARE

Premessa

Sono trascorsi quasi tre anni da quando questo lavoro, svolto dall’amico dott. Dante Marconi, venne pubblicato nel volumetto "Grottammare e Dintorni – Percorsi Obbligati", una miscellanea di studi storici ed archeologici riguardanti Grottammare e il suo territorio. Lo scopo dell’opera era ed è ancora, anche perchè sarà di prossima pubblicazione il secondo volume, quello di illustrare con spirito investigativo e documentario argomenti più o meno noti della nostra storia patria, seguendo una metodologia storica che potremmo definire neo-positivista: la ricerca archivistica e la visione dei documenti originali, quindi, la comparazione e la valutazione delle fonti letterarie, nonché l’indagine diretta sui luoghi interessati e l’eventuale analisi scientifica, come in questo specifico caso compiuto in modo egregio dal compianto Dante, oggi non più fra noi.

Nella storiografia locale, vari sono stati gli autori di ieri e di oggi che si sono cimentati in modo valido a descrivere sia sotto forma di cronaca sia in uno studio analitico le frane di Grottammare, calamità queste che hanno caratterizzato tutto il corso della nostra storia. Comunque a mio giudizio nessuno di loro è riuscito a stendere una completa sintesi sugli avvenimenti capace di armonizzare natura e storia, scienza e vicende umane; questo compendio di Dante invece assolve pienamente il suo compito in modo chiaro, descrittivo ed appassionato, una sorta di retrospettiva che riesce ad affascinare e a sconvolgere allo stesso tempo, rendendo perfino attraente la lettura di vicende che, ricordiamolo, furono pagine tragiche del nostro passato, ma che per questo motivo fanno di questa terra un luogo che, come scrive l’autore, è "... destinato dalla natura nel bene e nel male".

Ringrazio Dante per aver dato il suo contributo alla storia di Grottammare, e ancora oggi mi conforta la scelta che feci nel commissionare a lui questo lavoro, che qui viene presentato nella sua versione integrale.

Vincenzo Mascaretti


(clicca sulla foto - sono le 8 fig. del testo)
fig.1 fig.2 fig.3 fig.4 fig.5 fig.6 fig.7 fig.8
frana del 1928 la locomotiva, frana 1928 cartolina primi del '900 con i residui frana del 1843 Joseph Roux, Marsiglia 1764 cartografia frane _1955
L'ultima foto è riferita ad una cartografia (1764) del francese Joseph Roux (1725-1793) "Receuil des principaux plans, des ports et rades de la Mer Mediterranie...".
E' interessante perchè in tutta la costa tra Ancona e Pescara l'unica dicitura è stata collocata a Grottammare (tra porto di Fermo e porto d'Ascoli) ed indica PONTA DESININ, cioè un francesismo latinizzato di PUNTA del TESINO. La punta (elemento cartografico di rilevanza) si riferisce sicuramente alla zona formatasi, nel corso della storia, dalle numerose frane.

Un saggio di Dante Marconi

LE FRANE DI GROTTAMMARE

Un percorso all’indietro nel tempo tra geologia, natura e ricordi

 

Ben volentieri e con interesse ho aderito alla richiesta dell’amico Vincenzo Mascaretti di scrivere a proposito delle frane di Grottammare. Volentieri perché quest’argomento mi riporta molto indietro negli anni quando, bambino, osservavo interessato tutti quegli scogli nel mare davanti casa mia, convinto come tutti che fosse stata una frana a portarceli; con interesse perché discutere in merito a questo tema mi da l’occasione di "rimettere le mani" su alcuni capitoli dei miei passati, neanche di tanto a dir la verità, studi naturalistici universitari.

Ho pensato di trattare questo lavoro con spirito investigativo, voglio dire: se ci sono delle frane vediamo anzitutto cosa le provoca e come avvengono. Mi sono avvalso, per questo, di pubblicazioni varie e quindi di lavoro altrui che ho citato all’interno del testo indicando in nota autori ed anno di pubblicazione. Alcuni di questi testi sono "storici" e quindi risalgono all’indomani degli avvenimenti, mentre quelli più recenti spesso si limitano a citare i primi. Nella prima parte ho trattato soprattutto di questioni geologiche con cenni di litografia e geomorfologia (tengo a precisare di non essere un geologo di professione ma un semplice naturalista), quindi arriva il momento dell’acqua che risulta importante anche nel caso di frane. Soprattutto per questi primi argomenti ho consultato anche testi specifici editi a cura della Regione Marche. Per quanto riguarda eventuali responsabilità umane ne ho parlato brevemente in seguito. La seconda parte invece è quella che riguarda la storia delle frane nel nostro territorio, e gli scritti consultati maggiormente sono quelli a cui mi riferivo poco sopra; di questi ho riportato ampi stralci, non per smania "copiareccia", ma perché solo così si può entrare vividamente nei fatti che, ricordiamolo, hanno pure causato dei morti.

I ricordi, che spero susciteranno le parole seguenti non potranno riguardare direttamente troppi concittadini attualmente viventi, ma mio padre nel 1928, anno dell’ultima notevole sciagura, aveva sei anni, già su mia domanda mi ha parlato di un treno salito sopra la terra franata, ma che mio nonno non volle portarlo sul luogo dell’avvenimento; quindi qualcuno magari avrà qualche altro ricordo infantile ancora abbastanza impresso; in ogni caso un’intera cittadinanza è portatrice della memoria popolare che è molto più estesa di una singola persona, e questo mio scritto può essere l’occasione di verificarlo e farsi strada attraverso la nebbia degli anni.

Voglio cogliere l’occasione offertami da questa introduzione per fare una precisazione, direi toponomastica, a proposito dei nomi usati popolarmente per alcuni scogli cui accennavo sopra, in quanto le scogliere frangi flutto messe in opera dal 1971 in poi, proprio ai piedi del colle delle Quaglie, hanno ingenerato confusione.

All’epoca della mia infanzia (mi si permetta la civetteria di riportare la mia data di nascita: 13/01/1954) lo scoglio che mi stava (e sta tuttora anche se nascosto) davanti casa veniva chiamato San Nicola (tale nome non intendeva riferirsi al mitico omonimo grande masso fatto brillare nel 1862 per i lavori della ferrovia e di cui discuterò più avanti). Ora esso è inglobato nella scogliera del 1971 che in seguito venne allungata verso nord facendo perdere al San Nicola la sua individualità. Lo scoglio più a nord, prossimo al quartiere della Frana (quello che ancora oggi possiamo vedere), era chiamato San Pietro ed utilizzato da sempre per fare più o meno spettacolari tuffi e mettere alla prova la propria audacia. La nuova condizione di visibilità sopra descritta ha determinato che, almeno i sambenedettesi ma anche altri, hanno preso a chiamare San Nicola lo scoglio di San Pietro, e lo scoglio che una volta si distingueva davanti casa mi non viene più ricordato se non dai "nativi" quali il sottoscritto. Per finire questa introduzione e a proposito di "quel mio San Nicola", spesso mi ritorna in mente il ricordo struggente quando, bambino e poi ragazzetto, ero combattuto tra il desiderio di raggiungere a nuoto quello scoglio (dalla riva erano 180 metri circa) e la prudente "fifa" che mi suscitava quell’impresa, oltre ai genitori che, giustamente, cercavano di impedirmelo. Riguardo agli scogli, visibili e sommersi, quanti annegamenti procurarono a sfortunati pescatori dilettanti di cozze... ma anche quanti salvataggi si potrebbero raccontare, tanto che rischierei di andare fuori tema e affogare (è proprio il caso di dirlo) nei ricordi, perciò mi fermo concludendo qui questa introduzione.

 

Cenni di Litografia

Dalla consultazione delle carte geologiche (in particolare quella associata alla pubblicazione della Regione Marche) vedi fig. 1, l’area interessata risulta costituita da varie forme rocciose affioranti. Queste sono quelle dei litorali meridionali delle Marche. Innanzi tutto quella prospiciente il mare costituita da:

alluvioni e depositi attuali e recenti che seguono la linea di costa in tutta l’area e risalgono lungo le aste fluviali per un tratto (1); nel territorio di Grottammare, sulla Val Tesino, arrivano fino alla zona di colle Pelagallo (poi prosegue oltre riducendosi in larghezza).

Sempre lungo le aste fluviali e partendo ad ovest dell’abitato moderno, sempre fino a colle Pelagallo, si rinvengono alluvioni terrazzate del pleistocene superiore (4).

Lungo l’altro versante del detto colle (siamo al confine con Ripatransone) abbiamo detriti di falda, depositi eluvio-colluviali dell’olocene-pleistocene superiore e medio (2).

Conglomerati e sabbie con intercalazioni di un livello guida limoso a gasteropodi del pleistocene medio-inferiore sono presenti diffusamente sul colle delle Quaglie, sulla zona San Silvestro e sul colle di Santa Maria ai Monti, e proseguono anche più estesamente sui territori di Marano (oggi Cupra Marittima) e Ripatransone (7). A sud del fiume Tesino si ripresentano, dopo l’interruzione del corso d’acqua, nelle zone di Montesecco, San Francesco, colle Valle, colle Sgariglia e proseguono come in una lingua fino a Ripa. Questa litologia viene interrotta dal fosso delle Tavole e dal fosso Sgariglia dove riaffiora la tipologia (4) alluvioni terrazzate del pleistocene superiore. Infine sulla Val Tesino ed ancora in prossimità del colle Pelagallo è presente la tipologia (11), pelitico con intercalazioni pelitico-arenacee in strati sottili. Pleistocene inferiore.

Delle rocce sopra citate, i n. 1-2-7 costituiscono terreni permeabili; il n. 4 è definito variamente permeabile, mentre il n. 11 riguarda terreni impermeabili.

Sul colle delle Quaglie è presente una faglia che prosegue parallela alla costa fino a Cupra Marittima, mentre alla foce del fiume Tesino ce ne è una parallela al fiume e tre perpendicolari ad esso. Un profilo di rocce presenti nelle colline litoranee vede uno strato di terreno con vegetazione esposto in superficie, uno strato di clasti (ciottoli) più o meno cementati, uno di sassi e sabbie di formazione torrentizia e marina, dello spessore complessivo di alcune decine di metri, nei colli in esame e rappresentano complessivamente un enorme filtro posto sopra il piano argilloso, la cui quota in elevazione è una ventina di metri ed in profondità di qualche centinaio.

 

Geomorfologia: frane e centri instabili

Volendo ricercare l’origine delle condizioni attuali geologiche e geomorfologiche dobbiamo compiere un bel salto a ritroso nel tempo, almeno all’epoca dell’ultima era glaciale. L’ultima era glaciale, quella di Wurm, ha avuto il suo apice di crudezza circa 18.000 anni fa come testimoniano le morene più avanzate in vari ghiacciai d’Europa. Intorno a quell’epoca, ad est della costa marchigiana non esisteva il mare Adriatico come siamo abituati a pensarlo oggi; il livello marino di base era ribassato rispetto ad oggi di 100 / 120 metri, e la riva era arrivata nei pressi della Dorsale Medio Adriatica. Tutto quello spazio era occupato da un ambiente deltizio, paludoso con zone di torba. Con lo scioglimento dei ghiacciai e dopo la trasgressione versiliana si è instaurata l’attuale dinamica sedimentaria dovuta agli apporti fluviali ed alla ridistribuzione operata da correnti marine e moto ondoso. La costa marchigiana quindi è geologicamente molto recente e con il Pleistocene inferiore si ha il sollevamento del bacino quaternario che ha portato i sedimenti ad un’altezza compresa tra i 200 e i 500 metri slm, determinando così, tra l’altro, la formazione di tratti di costa a falesia alta come si riscontra a Grottammare, Pedaso, Ancona-monte Conero, Pesaro. Queste altezze hanno determinato una accentuazione della sedimentazione fluviale per la maggiore forza dello scorrimento in superficie. In corrispondenza della falesia alta, solitamente si trova una cimosa ghiaiosa e ciottolosa con presenza di alcuni massi di grandi dimensioni.

La falesia è spesso costituita da materiali plio-pleistocenici con diversa compattazione che sono disposti sopra argille grigio-azzurre sovraconsolidate. In ambienti di questo tipo avvengono frane ricorrenti anche di notevoli dimensioni. Il materiale franato in mare costituisce un ripascimento naturale dei litorali interessati da tale fenomeno per mezzo della ridistribuzione operata dalla corrente sottocosta. Le cause di tali fenomeni sono rispettivamente legate alla gravità, alla tettonica, all’acqua, alle caratteristiche litologiche dei terreni e all’azione dell’uomo.

Prendiamo in esame una alla volta queste cause, ma possiamo sorvolare sull’ultima citata in quanto per quello che debbo dire sulle frane nulla è stato provocato dall’uomo; in pratica tutte quelle popolazioni antiche e recenti ne hanno solo subito gli ingenti danni materiali ed umani. La Regione Marche ha realizzato un censimento e classificazione delle frane che interessano i territori dei propri comuni. Da questa indagine risulta che i fenomeni franosi nelle Marche sono più di duecento (vedi fig. 2). Come si vede Grottammare è compresa tra i centri con fenomeni d’instabilità maggiore e carta topografica alla mano si individuano facilmente i punti più alti e di maggiore energia di Grottammare: il colle Castello, il colle delle Quaglie, Montesecco, colle Valle, colle Sgariglia; questa linea di elevazione è anche quella dove si sono avuti ricorrenti fenomeni franosi. Quindi anche questa carta rappresenta non solo una migliore conoscenza del territorio ma anche la guida agli interventi prioritari per la gestione di eventi così pericolosi.

Tra questi c’è lo studio che il Comune ha commissionato per il nuovo Piano Regolatore, e che ha prodotto il lavoro "Caratteristiche geologiche e geomorfologiche del Centro Storico di Grottammare" F. Pontoni in "Analisi e criteri per il recupero" di F. Torresi (1999). Sulla base di questo lavoro si è accertato che il nostro paese fa parte di un sistema di frane compreso tra Pesaro e Vasto; rilievi geologici e geomorfologici, con l’ausilio di foto aeree e sondaggi profondi, hanno evidenziato la presenza di varie frane a Grottammare di estensione compresa tra 20 e 80 ettari (vedi fig. 3). Questi fenomeni sembrano classificabili come frane complesse, caratterizzate da un movimento principale di tipo scivolamento roto-traslativo, profondo, che coinvolge le argille di base, con crolli e scivolamenti delle porzioni più acclivi della scarpata sommitale, costituita da sabbie e conglomerati. Soprattutto le frane profonde si protendono anche per centinaia di metri oltre la linea di costa e vengono poi smantellate dalle correnti con distribuzione dei materiali lungo la costa. Le coperture detritiche scivolano in superficie. Vestigia di tutto questo lavorio sono rappresentate dagli scogli naturali (caduti dai colli) che si osservano in mare e sulla costa; questi massi di varie dimensioni sono costituiti da conglomerati e arenarie cementate dell’unità di tetto. Sasso Piccuto e Sasso di San Nicola rappresenterebbero esempi del genere. L’area del colle delle Quaglie, a più riprese investita dalle frane, è costituita dalle stesse rocce e coinvolta dagli stessi meccanismi del colle Castello. Quindi, frane roto-traslatorie profonde sono sempre riattivabili per presenza di materiali meglio drenati in superficie che giacciono sulle argille di base sempre lisciviabili da (in) queste condizioni idrauliche. Situazioni del genere sono documentate più a nord del centro ottocentesco, per il tratto tra i fossi di Santa Lucia e dell’Acquarossa, come si dirà in seguito. Sempre in tale lavoro esisterebbe la prova di una frana arcaica testimoniata dalla presenza, in fondo al pendio in zona Sant’Agostino, di scarpate d’erosione marina che risalirebbero all’epoca romana tra il III secolo a.C ed il medioevo; in quel periodo il nostro tratto di litorale era interessato da una "falesia viva", e presso la foce del fiume Tesino "il mare si internava ad oltre 750 metri dalla linea di costa attuale"; questa ricostruzione la si deve al Coltorti (1991).

All’inizio dell’epoca moderna, a seguito di intensi disboscamenti a monte, i fiumi trasportarono carichi detritici più abbondanti che sono andati a formare gli attuali livelli della cimosa costiera, sia pure con l’ampia variazione che conosciamo nella lunghezza delle spiagge.

 

Cenni di idrologia

A questo punto prima di raccordarci con la serie storica degli eventi franosi, vorrei continuare ad esaminare i fattori concausali del fenomeno. Come sopra esposto e come vedremo nel racconto sulle singole frane, tra i fattori scatenanti si annovera l’acqua, e molti sono gli aspetti da considerare a questo proposito. Vediamo anzitutto di considerare il rapporto che c’è tra suolo ed acqua. Il terreno per l’acqua è una sorta di spugna e come in una spugna da bagno l’acqua va ad occupare tutti quei pori di cui è costituita una spugna; questo vale finché ci sono spazi liberi, dopodiché non c’è più assorbimento. Allo stesso modo in un terreno si può raggiungere la saturazione quando vengono occupati tutti gli spazi intergranulari, soprattutto con quegli acquazzoni che, in poco tempo, scaricano quantitativi d’acqua pari a uno o più mesi di piogge normali. Esauriti tutti quei microspazi del suolo (si parla di capacità di campo) l’acqua inizia a scorrere in superficie (ruscellamento) in maniera più o meno violenta fino, purtroppo, a vari casi di devastazioni le quali, per fortuna, noi che godiamo di un clima ancora "tranquillo", quasi mai incappiamo. La capacità di campo è più o meno grande in dipendenza delle caratteristiche litologiche e morfologiche del suolo, della grandezza dei granelli, ecc. e tutto questo determina anche che una zona sia ricca d’acqua e una no, naturalmente su tutto questo interviene la tendenza dell’acqua ad evaporare e quella del sole che può arrivare a seccare gravemente un suolo. Tuttavia anche l’acqua per il terreno non si comporta come una semplice ospite temporanea, ma svolge un ruolo ben più importante e dinamico in quanto rappresenta il solvente di una soluzione in cui gli elementi del terreno costituiscono il soluto; in pratica questo vuol dire che l’acqua assume in se e quindi scioglie una parte del suolo, distruggendone la struttura e mettendolo ad una alla mercé di una grande quantità di fenomeni; vedremo che termini come lisciviazione e massa saponacea usati dagli autori che citerò più avanti, intendono riferirsi proprio a questo.

Il complesso di questo rapporto così intimo tra queste realtà produce soggetti che indichiamo con termini quali acquifero (i) e sorgente (i); prima di proseguire è meglio fare un pò di chiarezza al riguardo: gli strati di rocce e/o di sedimenti permeabili, che cioè permettono il passaggio dell’acqua sotterranea, sono definiti acquiferi; quando e dove la falda acquifera intercetta la superficie terrestre si incontra una sorgente e l’acqua in tali luoghi sembra sgorgare non si sa bene da dove, per cui in passato l’apparire dell’acqua sembrava qualcosa di misterioso e miracoloso (e per tanti in diversi parti del mondo lo sarà ancora). Oggi sappiamo che l’origine sta nella zona di saturazione e che in ultima analisi l’acqua proviene dalle precipitazioni.

In tutto il territorio regionale esistono vari acquiferi e sorgenti, riporto alcuni dati di uno studio specifico della Regione Marche; ma per restringere il discorso all’ambito particolare che stiamo trattando, notiamo che nella parte più meridionale della carta pubblicata nello studio della Regione si evidenziano i seguenti depositi (vedi fig. 4):

1) Complesso di depositi di origine alluvionale e, in subordine, di ambiente di spiaggia... Tale complesso è formato essenzialmente da depositi alluvionali terrazzati, antichi e recenti, delle pianure alluvionali costituiti da corpi ghiaiosi, ghiaioso-sabbiosi e ghiaioso-limosi con intercalate lenti, di varia estensione e spessore, argilloso-limose e sabbioso-limose (Pleistocene-Olocene)... In tali depositi sono presenti falde monostrato a superficie libera di notevole importanza per l’approvvigionamento idrico regionale ad uso civico, agricolo ed industriale. In prossimità della costa sono, o possono essere, presenti acquiferi multistrato con falde confinate o semiconfinate. Tali acquiferi sono ricaricati essenzialmente dalle acque superficiali. L’infiltrazione totale, nelle pianure fluviali principali, è nettamente superiore al ruscellamento.

2) Complesso di depositi arenacei, arenaceo-conglomeratici, arenaceo-pelitici di chiusura della sequenza quaternaria. In tali depositi sono localmente presenti falde con forte escursione annue e totalmente dipendenti dalle precipitazioni meteoriche. A questi depositi sono connesse le sorgenti, in gran parte a regime stagionale, presenti nei versanti prossimi della costa.

3) Complesso di Argille, argille marnose plio-pleistoceniche con intercalati corpi arenaceo-sabbiosi, unità arenaceo-pelitiche e pelitico-arenacee. In tale complesso la circolazione idrica è modesta e limitata ai corpi arenacei ed alle unità arenaceo-pelitiche di maggiori estensioni, intercalate alle argille. I depositi arenacei ed arenaceo-pelitici hanno notevole estensioni e sono presenti soprattutto nella parte centro meridionale della regione. La permeabilità elevata dei depositi (arenarie poco cementate, sabbie medio-fini e livelli ghiaiosi e conglomeratici) plio-pleistocenici permettono la formazione dei falde che alimentano numerose sorgenti molto utilizzate in passato. L’alimentazione è principalmente dovuta alle piogge e, secondariamente, alle acque superficiali. Nei depositi della sequenza pliocenica sono presenti in profondità acque salmastre e salate che alimentano le sorgenti associate ai vulcanelli di fango, presenti nella sequenza plio-pleistocenica. Le argille costituiscono il substrato impermeabile degli acquiferi delle pianure alluvionali ed hanno a volte la funzione di "acquiclude" per gli acquiferi carbonatici. Il ruscellamento e l’evapotraspirazione in tale complesso è nettamente superiore all’infiltrazione.

Quest’ultima tipologia di depositi è presente ad ovest della nostra zona ristretta, ma tocca anche Grottammare e per completezza dirò che vi è compresa l’area di Ripatransone, Castignano, Offida.

A questo punto è doveroso spendere due parole per sottolineare la ricchezza e la qualità delle acque in Grottammare; vorrei riportare alcuni passi del volume di V. Mascaretti e C. Spinucci "Grottammare nella memoria"; a proposito della stazione ferroviaria si dice: ".....è vero anche che vi fu un fattore decisivo che accrebbe l’importanza della stazione stessa: l’acqua. La presenza, nel territorio, di una sorgente di acqua potabile (di proprietà della famiglia Comi) ritenuta una fra le migliori della linea ferroviaria Adriatica per le sue caratteristiche specifiche ad uso delle locomotive (bassa percentuale di sali di calcio e di magnesio), indusse la Società ad acquistare la sorgente e costruire nel 1869 il rifornitore d’acqua. Ciò significava che tutti i treni a lunga percorrenza sostavano a Grottammare per il rifornimento del prezioso liquido, compreso il leggendario treno direttissimo chiamato la "Valigia delle Indie". E ancora in una nota: "Giudizi positivi sull’acqua di Grottammare furono formulati nei secoli scorsi da valenti chimici e clinici del tempo; ricordiamo quello del professor Alfredo Gavazzi, docente di chimica docimastica all’Università di Bologna, e quello del dott. Giovanni Marzi di Monte Urano... Anche lo storico Giuseppe Speranza, nella sua "Guida di Grottammare" edita nel 1889, esprime un ottimo giudizio, indicando inoltre una sorgente di acqua ferruginosa curativa situata nella Valle del Tesino, presso la proprietà Ravenna".

Le acque sono tutte uguali? A questa domanda rispondo no, se consideriamo i fattori chimico-fisici che coinvolgono l’acqua in quello stretto rapporto con il suolo che sopra ho brevemente descritto. La risposta è invece si nel senso che a noi consumatori interessa, soprattutto la potabilizzazione dell’acqua, e questa viene seguita conformemente a disposizione di legge e attraverso controlli continui (giornalieri in pratica) specialmente per gli aspetti igienici. Ma la risposta torna ad essere no se a darla è chi vuol fare dell’acqua un businnes vendendola ad un prezzo esorbitante ed ha interesse a distinguersi dall’acqua di tutti, quella pubblica, anche contando sulla credulità della gente, troppo sensibilizzata dagli spots pubblicitari.

Le acque minerali vantano di essere curative, ma qui casca l’asino: chi vuole, infatti, farsi curare dal bottegaio che gli vende quelle bottiglie anziché dai medici, visto che i sanitari che firmano l’autorizzazione per quelle acque non hanno visitato e mai visiteranno il consumatore finale? Qualcuno c’è e l’ho indicato poco sopra: gente troppo sensibilizzata dagli spost pubblicitari. Sulla stessa strada voglio utilizzare proprio io un vecchio spot d’acqua minerale che trasformato da me recita: "Se vuoi bere un prodotto genuino.......... bevi l’acqua del LAVANDINO".

 

 

 

Le frane in Grottammare: storia e cronistoria

Molti sono stati gli scritti pervenutici sulle frane di Grottammare e non pochi sono stati i lutti associati a questi eventi. Ognuno di essi ha riscritto la topografia del nostro paese "dicendo la sua" su opere antiche e più recenti, dando il suo contributo sui cambiamenti epocali riguardo anche la nostra economia, la nostra programmazione, i nostri progetti, e quindi sul nostro futuro. Ora a 77 anni dall’ultimo evento significativo ritengo sia giunto il momento di volgersi all’indietro e tentare di mettere ordine ai lavori pervenutici. Questi sono particolarmente interessanti anche perché diversi tra loro, pure nello stile; infatti si va dal resoconto quasi giornalistico alla scrittura con linguaggio aulico ed evocativo. Ma per il momento seguiamo un metodo cronologico iniziando dai primi fatti - di cui però ho già riferito – datati intorno al III secolo a.C., in piena epoca romana; queste frane hanno evidenziato la presenza di scarpate d’erosione da cui si evince l’esistenza di una falesia attiva. L’attività di questa falesia è durata almeno fino all’epoca in cui sotto al colle Castello ma anche agli altri colli esisteva un mare abbastanza fondo, cosa che è durata fino a tempi molto recenti.

La successiva segnalazione da fare è quella che riguarderebbe la frana in zona Castello del 1103; di quest’episodio si sa appena qualcosa ma non abbiamo documenti sufficienti per andare oltre. Tuttavia si hanno alcuni elementi che comproverebbero la presenza di antichissime frane avvenute in quella zona: "...Un pozzo artesiano, profondo circa 28 metri, scavato (anno 1965) nell’industria olearia Olivieri (ad ovest della statale 16), in prossimità topografica dell’ex garage Rastelli, rivelò (la mia è una testimonianza diretta) la presenza di due strati di foglie collocate a diversa profondità: segno inequivocabile di due diverse frane. Questa la composizione approssimativa della carota: 1° strato di terra con residui vegetali vari (alcuni metri), 2° strato di ghiaia per una profondità di diversi metri (chiara evidenza dell’effetto del mare), 3° strato di terra di circa 2 metri con segni evidenti di fogliame (segno inequivocabile di una frana), 4° strato di ghiaia".

Altro dissesto geologico si ebbe intorno alla metà del XV secolo, quasi sicuramente nel 1451; una testimonianza efficace ce la fornisce il Paltroni nel 1460, il quale descrivendo la marcia del capitano Jacopo Piccinino lungo la litoranea di Grottammare ne sottolineava gli sconvolgimenti.

Nel 1574 una frana travolge molte case dell’abitato (e per questo il Card. Felice Peretti concede al paese natio la somma di mille scudi per fronteggiare i danni; il 6 maggio 1669 frana il Monte delle Quaglie e in quest’occasione apprendiamo dai libri parrocchiali che un’intera famiglia con altre quattro persone furono tratte in mare (9 in tutto); il 25 gennaio 1779 una frana (vengono travolte alcune case sotto il Colle Castello e l’architetto Augustoni interviene per fermare i crolli) provoca una decisione epocale: papa Pio VI decide di creare il nuovo incasato.

Altre frane interesserrano il Monte delle Quaglie e/o la strada Lauretana (cioè l’attuale strada statale); negli anni 1783 e nel quadriennio 1792-1795 una frana all’anno testimoniano continuamente l’instabilità dei nostri colli (vedi fig. 5). Nel 1827 si ripete a Grottammare una serie di movimenti franosi che distruggono parte del vecchio incasato; di questo evento abbiamo una pianta del tempo disegnata dall’ingegner Dassi nel 1828 (vedi fig. 6). Ricordiamo che i franamenti del Monte Castello avvenuti in quell’anno furono addebitati alla negligenza dei fratelli Ottaviani.

Degli scritti più utili fa senza dubbio parte l’opuscolo "Memorie sull’avvallamento del Monte delle Quaglie" dello storico grottese Gian Bernardino Mascaretti edito nel 1850. Questo lavoro comprende una retrospettiva su alcune precedenti frane avvenute nel territorio; ad esempio su quella del 1569 ci fa sapere che: "Se si volge lo sguardo alla costa che sta di fronte all’Adriatico sì al nord, come a sud di Grottammare, vi si scorge una serie di colline quali più quali meno elevate, quasi tutte dirupate e repenti, siccome sono quelle che sorgono nelle vicinanze, e quelle su cui siede Grottammare istesso. Esse presentano al mare scisso il loro fianco, e fan vedere i lavori che la natura con ordini di strati ha disposti nelle loro viscere... Il castello di Sant’Andrea collocato su una di esse, nel 1569 in occasione di gran pioggia, e di mare tempestoso che flagellava la pebdice della collina, perdette la chiesa pievanile, e diciotto case, le quali colla parte del colle su cui erano basate si rovesciarono nel vicino Adriatico. L’Oratorio di San Vincenzo, cui aveva fatto costruire il capitano Federico Paccaroni nel 1610, la contigua casa di villa, il casino de’ Signori Conti Fedeli con i circostanti giardini subirono la stessa sorte per rovina del colle che s’innalza presso al territorio di Sannt’Andrea: cinque persone vi rimasero sepolte. E l’antico Grottammare, tranne quella parte che tiene tutt’ora il nome di Castello, la quale col suo girone è situata sopra il colle, è tutto basato pel pendio su terreno smottato, e sopra ruine di più vetusti edifizi, i quali esistevano sulla vetta, d’onde con porzione delle mura castellane son rovinate".

Sistemata, per così dire, la storia e passando alla frana del Colle delle Quaglie del 1843 riporta una sorta di cronaca dei giorni precedenti ed una descrizione del profilo geologico del colle: "È situato questo colle a nord di Grottammare, da cui è diviso dal fosso detto Cantalone. A formarsene un’idea, ha esso nella sommità un piccolo strato di terreno coltivato, il quale, come generalmente le sommità de’ circostanti colli, contiene buona quantità di pallottoline ferruginose, ed insieme de’ così detti calcinelli. Siegue immediatamente uno strato di conglomerato di ciottoli rotolati. Quindi un altro strato di sabbia gialla. Più sotto a pochi metri sopra il livello del mare, vi è stratificata la marna argillosa. Questo colle, prima dell’avvallamento del 1843, per circa un terzo di sua altezza totale aveva la vetta tagliata presso che perpendicolarmente in faccia al mare; il rimanente era tutto terreno scomposto che formava il pendio d’una superficie irregolare per una linea di 166 metri sino al lido del mare. La giacitura degli strati è inclinata al levante".

Un’analisi sulle cause dell’avvallamento: "La marna argillosa contiene della torba legnosa, o lignite immatura da cui uno strato se ne scoprì non ha molti anni nel fosso Cantalone in occasione che le acque piovane ne approfondarono il letto, e tuttora se ne può pur vedere ne’ massi di marna che stanno sparsi per tutta la parte bassa di quel pendio, e nel lido marittimo che è tutto di marna alla falda di quel colle... Le acque copiose vanno a filtrare sopra la marna, la resero molle, e cedevole in modo che gli strati superiori i quali erano parte compatti, e parte di facile slegamento, le si abbandonarono sopra in masso, come ben l’addimostrava la fenditura che apparve alla sommità del colle presso che parallelamente alla fronte della rupe, da essa distante per circa dieci metri, e lunga circa duecento... In tale stato di cose, stante la declive giacitura degli strati, tanto più che la marna argillosa imbevuta della molta acqua esser doveva molle e saponacea; è facile a concepirsi che avrebbe dovuto seguirne la scivolata dal masso in movimento. Or se questa allora non seguì, lo si fu per la barra di terreno alto per circa due terzi del colle, la quale gli faceva una scarpa di una linea di 166 metri sino al lido, dove una grossa muraglia la sorreggeva, difendendo la strada provinciale dal flutto del mare, e dalle frane di quel terreno facile a disciogliersi".

E poi la frana: "Le sorgenti di acqua che erano in quelle vicinanze, divennero torbide, e finalmente la sera del 2 aprile fu avvertito che la strada si era riabbassata, segno evidente che il muraglione mal reggendo all’urto soverchiante, già aveva ceduto. E così fu veramente; poiché alle due antimeridiane del giorno 3 aprile, il masso staccato dal colle, alquanto inclinato al colle stesso, si avvallò, e tutto il pendio con immenso fremito scorse a formare dentro il mare una lingua di terra della estensione di 560 metri, senza tener conto di quella parte che non appariva, perché sommersa sotto il livello delle acque. Quegli alberi, que’ cespugli, e quell’erbe che vestivano il pendio del colle, passarono ad ornare questa nuova superficie, sebbene interrotta qui e colà da laghetti, dove si videro guizzare a torme i pesci. Tre piccole case di coloni anch’esse furono trasportate nel novello lido rovinose e sconnesse, dentrovi incolumi in parte pecore, agnelli, il can da guardia, e le rusticane masserizie. Altra casupola ch’era sul piano e attraversava il corso al margine destro del terreno in moto, colta sotto da una grande albero, e dal terreno stesso, crollò. Quegli imprudenti genitori che vi eran dentro con quattro piccoli figliuoli, a stento ne furono estratti salvi con soli due figli". Del terrificante evento abbiamo una rarissima stampa dell’epoca (vedi fig 7).

Non manca il Mascaretti di descrivere le conseguenze, vicine e lontane, dell’evento: "Non è a dirsi la gran commozione del mare, cui la terra così violentemente restringeva il letto. Le acque dietro a quell’urto rifluendo, si inoltrarono fin dove sogliono nelle più grandi tempeste. Le bracciere ancorate presso il nostro lido ebbero tronche le gomene dall’urto violento. A Marano, i flutti trassero in mare le piccole barche ch’eran sicure in terra. In Sambenedetto le paranze, che in quell’ora si ponevano alla vela per la pascagione, furono improvvisamente balzate con ispavento de’ pescatori le une contro le altre. Anche più lungi fu avvertita la subitanea agitazione del mare, come a Pedaso, ed al Tronto, l’uno distante sette miglia, e l’altro nove. La scompigliata campagna per molti giorni tirò a se dai circostanti luoghi numero grandissimo di curiosi, i quali scorgevansi ad ogn’ora tutta percorrerne l’ampiezza e provar diletto in rimirare la bizzarra varietà di que’ poggetti, di quelle piccole valli, de’ rivi, de’ laghetti, de’ scogli... Ne è certa pruova, che dove al presente è il lido del mare, prima del 1843 eravi un fondo di acqua almeno di tre metri, e questo lido, e quanto si scorge del letto del mare, quando l’acqua è limpida, tutto è marna che quell’avvallamento ci ha spinta.

Quelle appena riportate sono alcune conseguenze immediate, ma l’autore di questa memoria va ben oltre e si occupa delle susseguenti condizioni igieniche: "I perniciosi effetti da quella sconvolta terra cagionati, non si limitano alla morte di due individui, ala devastazione di giardini, e di coltivate campagne, alla interruzione pel notevol tratto della strada provinciale. Mali maggiori ne seguirono, che tutt’ora affliggono quell’intera popolazione. Temperata e pure era l’aria di Grottammare, che faceva godere a quegli abitanti la più florida sanità. Basti in pruova, che il numero dei defonti non sorpassava ogni anno l’un per cento degli abitanti... Nell’aprile del 1844 si manifestò una epidemia di febbri terzane. Prima ad esserne colpiti furon di quelli che solevano per lavori trattenersi a lungo in quella nuova campagna, come di quelli i quali volte alla medesima avevano le loro abitazioni, specialmente nell’alto. Negli anni successivi si sono riprodotte con sintomi sempre più gravi. Ne sono prese intere famiglie, e non solo della classe indigente, ma anche delle più agiate. Degenerano in gastriche, in nervose, e in perniciose, assumendo talvolta caratteri i più formidabili, e si associano soventi ad altri mali già contratti per cagioni ordinarie".

Si sarà già capito che a quel tempo il Mascaretti non conosceva, e non poteva conoscere la malaria e infatti lui attribuisce tutti quei malanni alle putrefazioni, esalazioni, evaporazioni che ammorbavano l’aria dopo l’evento; tuttavia in conclusione di questo suo scritto mostra di sapere come devono comunque essere svolti i lavori di bonifica per riportare le condizioni igieniche generali su livelli di salubrità accettabili; leggiamolo ancora: "Ai tristi effetti che si sperimentavano ben iscorsero gli intelligenti le maligne cause che agivano di conserva; e chi reggeva la cosa pubblica non mancò di implorare provvedimenti salutari o solleciti. Finalmente verso la fine dello scorso anno si è impresa la livellazione della ineguale superficie affinché le acque abbiano il conveniente scolo, e siano così disseccati gli stagni. Sono di avviso, che canali profondi di forte pendio, e ne’ convenienti luoghi verranno scavati, acciò le acque, specialmente quelle ritenute dalla terra argillosa, si allontanino possibilmente dalla superficie, e libero abbiano il loro corso al mare. A non rendere frustranei i riferiti lavori, non si mancherà, cred’io, di vigilanza affinché i canali non siano ostruiti dalle piccole frane, che giornalmente a ogni lieve cagione si fanno, e acciò le piante palustri che spontaneamente vi nascono sian tosto divelte, ad evitare che moltiplicate, non servano di ricetto alle innumerabili schiere d’insetti, e ritardino il corso alle acque. Altro mezzo efficace, onde migliorare la condizione dell’aria, è un’opportuna coltivazione della terra con eseguirvi piantagioni e seminagioni. I vegetabili colle molteplici loro barbe assorbiscono que’ succhi di cui la terra è imbevuta, e questi decomposti dentro i loro canaletti, si convertono in loro succo nutritivo. Le foglie anch’esse contribuiscono alla salubrità dell’aria coll’assorbire colle loro pelurie parte di quei vapori che si alzano dal suolo. V’ha degli alberi, che anche colla traspirazione comunicano all’aria salutifere sostanze".

Altro contributo sulla frana del Colle delle Quaglie del 1843 è quello di Filippo Palmaroli il quale, come avevo preannunciato in sede di presentazione, con una prosa aulica ed evocativa ma comunque di grande grazia dialettica, descrive i tragici eventi: "... Già da lungo tempo erasi osservato che sul vertice di quel colle apparivano fenditure che s’internavano a molta profondità e ponevano in qualche apprensione i possessori de’ sottostanti terreni e gli abitanti delle case sovramenzionate. Crebbero i timori quando dopo le dirottissime piogge cadute nel mese di marzo si udì narrare di smottamenti e di frane in molti dei circostanti paesi ed anche presso la non lontana città di Fermo. Posti pertanto in sull’avviso i poveri agricoltori che abitavano quelle casipole furono solleciti a cercare salvezza dalla fuga appena nella notte del primo di Aprile si avvidero che piccoli massi distaccati dalla sommità del monte rotolavano al basso... Passate appena dopo la mezza tre ore, ecco con immenso fragore, il cui rimbombo si udì a molte miglia lontano, staccarsi quasi dalle radici la metà di quel monte e giù piombar riversata sui sottoposti terreni dove trascinando con impeto dove sotterrando con violenza le piantagioni le case la pubblica strada, e spingersi a lungo e largo tratto nel mare che ritirate impetuosamente le onde cedette il luogo a quello smisurato volume, e curvandosi in vasto seno presenta oggi in quel punto l’aspetto di un Capo o di una Penisola".

Purtroppo ci furono giovani vittime: ".... Due sole vittime umane s’ebbero a piangere in questo disastro: e furono due fanciulli figli di quell’Emidio Marconi di cui sopra dicemmo. La costui casa per metà fu coperta e subissata; per l’altra metà sconnessa e sconquassata piombò sovra gl’infelici che l’abitavano. E fu ventura che il letto in cui si giacevano i genitori e quattro loro figliuoli si trovasse appunto in questa seconda metà".

Tutto quel frastuono e le urla fecero accorrere alcuni volontari a prestare la loro opera di soccorso.....: "...Ma purtroppo giunse tardo il loro generoso soccorso agli altri due giovanetti che sulla opposta sponda dello stesso letto erano rimasti oppressi dalle rovine e ne furon tratti già morti e stretti insieme nell’ultimo amplesso dell’amore fraterno".

Come a voler dare un segno di ripresa: "... Tra i frantumi della quale, che ben occupavano lo spazio di 700 metri in larghezza si vide in men di tre giorni tracciata e resa transitabile una strada. Durante il quale brevissimo tempo era spettacolo di curiosa novità il veder transitar per mare carriaggi e carrozze essendosi all’uopo istituite delle barche che una all’altra congiunte a foggia di ponte levatoio e sovr’esso assicurato il carico, all’opposta sponda, vagando amendue e costeggiando la nuova penisola, conducevano".

Nonostante tutte le frane avutesi, è l’ultima quella che ha preteso il più alto prezzo in vite umane (alla fine saranno 15), si tratta dell’avvallamento del 1928 avvenuto tra il fosso Cipriano ed il fosso dell’Acqua Rossa. Tra quelli consultati, il lavoro principale riguardo tale sciagura è quello del geometra grottese Pasquale Perozzi stampato nello stesso anno. Anche il Perozzi inizia trattando della costituzione geologica delle nostre colline e della piovosità associata alle frane: "... Costruendo un diagramma, la curva rappresentante la frequenza della frane, risulta presso che parallela a quella rappresentante l’altezza delle piogge, con prevalenza nella stagione primaverile per il fondersi delle nevi". Ma il Perozzi non si limita a rilevare questa coincidenza statistica ma si propone anche di spiegare in maniera particolareggiata, pur non essendo geologo di professione; rileggiamo ancora un passaggio: "... Fra le forze interne quindi la più attiva è l’acqua che filtrando attraverso i terreni permeabili e per la propria azione meccanica e per quella chimica, in combinazione, con altri agenti, compie un lavoro di corrosione e di alterazione delle rocce. Incontrando poscia lo strato impermeabile, per la tendenza di raggiungere il punto più basso, si convoglia per le sinuosità interne verso al parte più depressa, diminuendo la coesione delle rocce e delle terre, dilavando le parti disgregate, disciogliendo le materie e lubrificando la superficie impermeabile sulla quale scorre. Da qui la degradazione e la distruzione della forza coesiva delle particelle, la formazione di fenditure o spaccature alla superficie, lo scalzamento della massa alla base, la determinazione del piano di scorrimento degli strati superiori su quelli inferiori, per la conseguente diminuzione dell’attrito nella superficie interna della separazione; tutti fenomeni che verificandosi simultaneamente o a tempi successivi, rompono l’equilibrio delle forze dominanti e determinano i movimenti franosi più o meno importanti". Il testo continua riallacciandosi a situazioni di altre zone anche distanti come la Cina (per i terreni a loess), per le Prealpi venete, il Cadore, le Alpi piemontesi. Dobbiamo al Perozzi anche la citazione di una statistica del 1927 secondo cui si ricava la franosità dell’Italia: "Il professor Almagià (è detto a pag. 234 della Enciclopedia mensile "La Parola" dell’anno 1927 edita a Torino" ne aveva rilevate in una sua statistica, 170 di importanti, tra il 1875 e il 1914"; non di meno il Perozzi si impegna nel riportare alcuni esempi italiani di frane sui due versanti dell’Appennino.

E veniamo ora alla frana; il Perozzi si occupa finalmente di "cause ed effetti dello scoscendimento del 9 maggio 1928" affrontando subito l’argomento: "Il 9 maggio 1928, tra le ore 21,45 e 22,10, un tratto del colle compreso tra il fosso dell’Acqua Rossa e quello di Cipriano, sito a nord, a circa 2 chilometri da Grottammare, è scivolato fino ad internarsi nel mare per una profondità di metri 120 circa. La sezione dall’alto in basso, nell’asse dello scoscendimento era rappresentata, antecedentemente, da una verticale per un tratto di circa venti metri, tre piccoli gradoni successivi e da una scarpata al cui piede si svolgeva la strada provinciale Aprutina"; e conclude che un fatto risulta chiaro all’osservatore: "... dette pareti assumono la condizione di stabilità solo dove scoprono le formazioni rocciose, il che consente la deduzione che il colle che sovrasta Grottammare, il Monte delle Quaglie, il Colle di Sant’Andrea ed altri più o meno lontani lungo la costa, hanno raggiunto la condizione di sicurezza, perché si sono già spogliati di tutta la massa franabile".

Su quest’ultima osservazione del Perozzi vorrei tornare in sede di conclusione; ma ora passiamo agli effetti che furono particolarmente funesti, che come già detto, ci fu un totale di 15 vittime. La narrazione qui coinvolge particolarmente, oggi diremo "sembra di stare al cinema": "Colmato il tratto basso e pianeggiante tra i rilevati stradali, la parte superiore della massa in movimento, sconvolta maggiormente dall’urto subito, con un moto accelerato e travolgente è scivolata su quella inferiore, ha sorpassato la sede ferroviaria e si è spinta nel mare ad una profondità di circa 120 metri. La massa spostata si calcola di circa mezzo milione di metri cubi..... E in questa tragica corsa di terre e di rocce sconnesse, furono travolte e sepolte la casa colonica del Sig. Mercolini dott. Basilio di Offida, il casinetto omonimo che civettuolo si affacciava tra i pini, dal grazioso poggio sul quale sorgeva, e demolito lo spigolo nord-est del casino di campagna del geometra Piergallini Serafino di Grottammare, tutti fabbricati siti nel secondo gradone sotto il colle. La casa colonica Cannella, che stava nella parte bassa tra la provinciale e la ferrovia, venne anch’essa spezzata in un primo tempo e poscia travolta contro l’argine della ferrovia, il piano superiore, dove sono state rintracciate tutte le sette vittime". In questa serie di avvenimenti si verificò che la linea telefonica venne abbattuta un quarto d’ora dopo la linea elettrica e: "purtroppo questa fatale circostanza ha fatto ci che il treno viaggiatori N. 1785 in partenza da Cupramarittima alle ore 22,05 ricevesse l’ordine di via solo qualche istante prima dell’interruzione del telegrafo. E il ferreo mostro sbuffava veloce, nella notte buia, sicuro nella sua corsa, giacché il disco che era all’altezza della casa Cannella indicava libera la via. Quand’ecco l’enorme valanga di terra lo sfida e gli sbarra l’andare, coprendo di massi rocciosi, di terra e di arbusti divelti le lucidi guide di acciaio. L’accorto macchinista sorpreso, come in un brutto sogno sussulta, per il disco vicino scomparso, con movimento istintivo frena la corsa, ma l’ostacolo era troppo d’appresso: la macchina tenta salire con forza la molle massa di terra, s’infiltra e s’impenna tremendo, mentre l’urto violento per quanto rallentato dai freni, una carrozza di prima classe investe quella seguente di terza. Nel cozzo due vagoni si compenetrano, si frantumano, uccidendo dei viaggiatori e ferendone sette".

Questa sciagura ad un’ora più serale, ed anche perché nel 1928 i mezzi di trasporto erano più celeri e comodi, provocò un accorrere di persone ben maggiore di quella del 1843: "i visitatori provenienti da paesi e città, compresi in un raggio alquanto esteso, sono stati numerosissimi. I cronisti dei quotidiani di tutta Italia, si sono in mille modi sbizzarriti a raccontare i vari episodi, fino ad arrivare ad iperbolici voli di case... Ne sono mancate le gare di quelli che a scopo reclamistico, hanno voluto stabilire a mezzo della stampa, i diritti di priorità per essersi prodigati nell’opera di soccorso..... Ma poiché queste umane miserie non adombrano i molti che in silenzio, ed efficacemente, con animo serenamente generoso, hanno dato l’opera loro, è preferibile trascurare i dettagli al riguardo anche perché il presente studio si propone il solo scopo di raffronto tra i vari scoscendimenti che ogni tanto, nei secoli, cambiano la topografia di questo ridente lembo di costa Adriatica".

Di queste ultime frasi voglio rimarcare due aspetti: il primo è che alla conclusione del mio scritto "il solo scopo di raffronto" vale anche per me, il secondo è che questo lavoro del Perozzi, come quelli degli altri, alla fine ricorda che viviamo, noi di Grottammare, in uno splendido luogo.

Per il resto della bibliografia riguardante quest’argomento si vuole ricordare: di Rolando Perazzoli "Le frane: cronistoria" che riporta un elenco di eventi franosi; "Epidemie, Cataclismi e Meteorologia a Grottammare e dintorni" (1994) di Alberto Silvestro, un lungo elenco sulle materie del titolo che si conclude con l’ultimo fatto di frana, quello del 1963: "in località Ischia marina un movimento franoso interessa minacciosamente alcune case isolate ed un tratto della statale Adriatica. Lo spostamento ha componente orizzontale prevalente ed interessa tutta la massa. L’abitato è incluso nell’elenco di quelli da consolidare a cura dello stato. Per attenuare la tristezza provocata da tante sciagure, concludo ricordando i pregi del clima di Grottammare, per cui già nell’800 veniva raccomandata come climatica invernale" e balneare estiva aggiungo io. "Grottammare: popolo, territorio, arte e storia" (1988) di Sandro Addazi, qui l’autore nel capitolo "Nubi di dolore" si limita a citare il Mascaretti e il Perozzi per le frane del 1843 e del 1928; di quest’ultima, comunque, da un rapporto particolareggiato sulle vittime. "Pericolo di frane oggi" (1990) di Manlio Piattoni, che si occupa..... e preoccupa della inesorabile agonia di: "Grottammare, la città che muore" e ancora "... Se non abbiamo perso la nostra identità culturale, se crediamo che ne valga veramente la pena, difenderemo la nostra terra con qualsiasi mezzo e da qualsiasi tipo di incursione anche politica, non solo perché essa è sacra ma anche perché Grottammare è un gioiello di architettura spontanea, unica ed irripetibile".

In conclusione e per riassumere, leggendo quanto scritto nel passato ci rendiamo conto di quanta influenza abbia avuto sul nostro territorio ed i suoi abitanti il dover convivere con le frane. Non si può quindi non interrogarsi sul futuro. Accertato che queste frane sono di scivolamento roto-traslatorio determinato dalla presenza di quello strato argilloso alla base della nostra colonna litologica, in presenza di infiltrazione acquose (che del resto rappresentano una ricchezza della nostra geomorfologia), il pericolo di frane e scoscendimenti saranno sempre presenti, e quello che possiamo/dobbiamo fare è vigilare per prevenire l’ennesima disgrazia.

Tutti questi accadimenti fanno di Grottammare un luogo destinato dalla natura nel bene e nel male. A seguito degli eventi franosi, il vecchio incasato è andato progressivamente svuotandosi di abitanti; in seguito alla frana del 1779 – come già detto – s’interrò parte dello scalo portuale. Ma questa non fu semplicemente la solita calamità perché oltre al trasferimento del nuovo incasato (alla marina), i grottesi furono spinti a diversificare il loro sistema economico: non più solo agricoltura e pesca con scambi commerciali, ma fin dal secolo successivo inizia l’attività del turismo che coinvolgerà sempre di più il paese.

Grottammare paese balneare estivo e climatico invernale quindi, attività quella turistica che ci ha portato all’epoca attuale, l’epoca della conquista ripetuta della BANDIERA BLU.

 

 

 

Lo scoglio di San Nicola e sasso Piccuto

due parole su di un mito

Fino alla costruzione della linea ferroviaria adriatica erano presenti non lontano dalla stazione di Grottammare due grossi massi che per costituzione loro e per la storia naturale del paese, facevano pensare essere venuti giù dalla zona a monte. Certo a quel momento questi scogli che davano intralcio ai lavori erano abbondantemente interrati, ma per antichi ricordi li si sapeva essere stati in mezzo al mare come posizione; figuriamoci lo stupore di chi avesse visto lo scoglio di San Nicola per la prima volta. Questo infatti aveva sopra di se una costruzione (chiesa di San Nicola appunto) che, per quanto diroccata, faceva intuire che il costruttore avesse lavorato sulla terra ferma ed in posizione di sufficiente sicurezza. Gli scogli, geologicamente della stessa natura dei colli che si ergono ad ovest della loro posizione, sono chiaramente due macigni erratici, cioè formatisi in una parte diversa dall’attuale dislocazione. Questo tipo di scogli si rinvengono in maniera tipica in prossimità dei ghiacciai; questi infatti, pur apparentemente immobili, presentano un deflusso che seppur lento risulta comunque inesorabile, tanto da scaricare al momento dello scioglimento carichi enormi, da ricordare appunto i massi in discussione, anche se qui i ghiacciai ovviamente non c’entrano, caso mai le argille di base. Il San Nicola aveva le seguenti dimensioni: mt. 15x10 e si elevava per una altezza di m 8 sul livello del mare; sulla sua sommità, come già detto, erano presenti dei ruderi: "... aveva una costruzione quadrilatera in pietra rozza cementata con calce e breccia fina a forma di fondamento o zoccolo. Sopra di questo spiccavasi un muro più stretto di mattoni, la cui parte esteriore era di filari di ciottoli tagliati a prospettiva piana, alternati a file di mattoni; e anche questo muro era col cemento di calce e brecciolina... le qualità del murato della chiesa, per esser conforme a quella delle mura dell’antico castello, rimontano intorno al mille". L’altro scoglio, il Piccuto, era un lastrone di breccia compatta dalla figura somigliante un triangolo equilatero, con un vertice che di elevava per un’altezza di 11 metri sul livello del mare, ed inclinato ad ovest di un paio di metri abbondanti. Masso erratico anch’esso come quello di San Nicola ma con inclinazione degli strati diversa, orizzontale anziché verticale; questo secondo scoglio anch’esso giù disceso per il declivio del monte vicino ha conservato la usa giacitura orizzontale sopra un letto di terreno scomposto. Scivolato anch’esso verso il mare, perse col tempo tutta la terra sulla quale era giunto tra i flutti per stratificarsi nel lido. La presenza di questo scoglio in mare è attestata già da un documento fermano che risale al 1103: "... incipit a mare a Sasso Piczuto".

Come si sa negli anni 1792-1795 avvennero avvallamenti nel vicino Monte delle Quaglie che spinsero nel mare una gran massa di terreno. La ghiaia a mano a mano che veniva rigettata dal moto ondoso, colmava il lido giungendo a lasciare in secco gli scogli. Per l’avvallamento poi del 1843 cresciuta ancora la colmatura del lido, il mare si era già discostato dallo scoglio di per 64 metri. Si capisce quindi, con tali vicende, che entrambi gli scogli dovevano rimanere come li trovarono quelli della ferrovia: interrati!! (vedi fig. 8)

Allo scoglio di San Nicola è legata tutta una storia al limite della leggenda che non sto qui a descrivere, comunque da parte mia (non voglio entrare nelle cose religiose) lancio una proposta: visto che le tante frane hanno portato anche distruzione e morte, sarebbe stato bello se i grandi massi in oggetto fossero diventati monumenti naturali a ricordare le frane; e ancora..... visto che quegli scogli non esistono più, si potrebbero fare allo stesso scopo opere nuove e ben ispirate per commemorare chi nelle sciagure perse la vita e, alla maniera di popolazioni anche primitive, per scongiurare che quei disastri abbiano a ripetersi.

 

Una nuova ipotesi sull’origine degli scogli ?

Una nuova ipotesi su origini e storia degli scogli di San Nicola e Piccuto nasce dalla domanda: e se questi scogli fossero stati sempre li? e quindi: "... erano un tutt’uno con lo stesso colle della Madonna degli Angeli, cioè erano la loro parte estrema che lambiva la stessa acqua marina". Questa è tutt’altro che un’idea balzana, infatti tale ipotesi non ci costringe ad ammettere uno scivolamento che faccia permanere la posizione "regolare" della chiesa evitandogli un tuffo tra i flutti, non ci crea problemi per spiegare la presenza della chiesa stessa, né tanto meno di date e di periodi storici: "... forse è nel XII o XIII secolo che viene costruita la chiesa di San Nicola sulla parte finale del colle, cioè quella che sarà poi il Sasso di San Nicola". Peraltro con essa non sorgono problemi nuovi, perché è del tutto sensata, la geologia non vi si oppone:

"... la struttura dei macigni era della stessa dura puddinga che caratterizza anche oggi il colle", la storia naturale neppure:

"... la furia del mare con il suo moto ondoso, nel corso dei secoli, provocò un costante fenomeno di erosione presso il settore estremo dello stesso colle sino a distaccarlo, dando origine a due scogli separati dalla terraferma" e ovviamente le frane hanno dato il loro contributo alla spiegazione: "... Le nuove frane che caratterizzarono la zona nei secoli posteriori (XVI e XVIII) e il lento ritirarsi del mare, causarono la fine del porto e l’insabbiamento dei due grandi macigni". Voglio far presente a questo punto che nel mondo scientifico quando si confrontano più ipotesi per spiegare un fenomeno si finisce sempre per "premiare" l’ipotesi che:

1) risponde a più domande; 2) non ne formula di nuove, ovvero che siano in numero minore. In base a tutto ciò, e seppur osservando il principio della precauzione, io accolgo favorevolmente questa nuova ipotesi per così dire "stazionaria".

Concludendo questo mio modesto lavoro, un pensiero mi ricorre su quegli scogli, che semplicemente siamo costretti a dire: .......... peccato che non ci siano più.

Grottammare, giugno 2005

NOTE

1 Per questo capitolo mi avvalgo soprattutto del volume AA.VV., "L’ambiente fisico delle Marche", 1991.

2 Secondo documenti dell’archivio comunale di Grottammare riportati nello studio di V. Mascaretti e C. Spinucci "Il porto di Grottammare" in "Grottammare e il Cuprae Fanum, pp. 67-68", la frana del 1827 sarebbe da addebitarsi alla negligenza dei fratelli Ottaviani; vedi oltre il mio studio.

3 La carta mostra uno stesso colore per Grottammare e Cupra Marittima (Marano) e questo sarà dovuto ad un’esigenza di sintesi, ma tutti sappiamo quanto sono state più frequenti e di maggiori dimensioni le frane di Grottammare. Il territorio di Cupra è stato investito principalmente da frane in zona fosso Sant’Andrea, che è molto ravvicinato a Grottammare, a Marano la terra è stata sempre più tranquilla.

4 Vedi Gian Bernardino Mascaretti, "Memoria sull’avvallamento del colle detto Monte delle Quaglie" 1851; Pasquale Perozzi, "La frana avvenuta tra Grottammare e Cupramarittima la notte del 9 maggio 1928", 1929; Alberto Silvestro, " Epidemie, Cataclismi e meteorologia a Grottammare e dintorni", 1994.

5 Vedi il volume alla nota 1.

6 Vedi gli studi di G. B. Mascaretti già citato e Vincenzo Galiè, "L’apocalittica frana di Grottammare del 1451", 1995.

7 Vedi Lillo Olivieri, "I porti di Grottammare", in AA. VV., "Leggenda e coraggio della marineria grottammarese" 1998.

8 Vedi Vincenzo Mascaretti, Carminio Spinucci, "Grottammare e il Cuprae Fanum" 2005, pag. 68.

9 Nel nostro tempo, la stampa è stata pubblicata per la prima volta da Alberto Silvestro in "La marineria picena dal primo Ottocento all’Unità d’Italia", Rivista Marittima 1998.

10 Grottammare, Archivio Palmaroli, "Quaderno manoscritto della famiglia, secc. XVII – XIX", in Alberto Silvestro "La frana del monte delle Quaglie, un documento inedito di Filippo Palmaroli", vedi l’Arancio n. 15, aprile 1996.

11 Vedi lo studio di P. Perozzi alla nota 4.

12 Gian Bernardino Mascaretti, "Memoria sul Sasso di San Nicola al mare", Ripatransone 1863.

13 Archivio di Stato di Fermo, codice 1030, oggi nella raccolta "Liber Iurium, vol III, doc. 395, pag. 719" a cura di D. Pacini, G. Avarucci, U. Paoli".

14 Vincenzo Mascaretti, Carminio Spinucci "L’antico porto di Grottammare" in "Grottammare e il Cuprae Fanum" 2005, pag. 56.

15 Vedi nota 14.

16 Vedi nota 14.


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