OPPOSIZIONE II


Sull'ubicazione del Tempio della dea Cupra e sui ruderi di Grottammmare secondo il monaco Bernardo Faustino Mostardi, e secondo altri autori. Nel corposo volume "Cupra", il Mostardi dedica un intero capitolo alla questione del tempio, tentando di dimostrare con argomentazioni storiche e filologiche che il santuario della dea Cupra non fosse ubicato a San Martino di Grottammare, ma alla Civita di Marano. In realtà ai "Ruderi di Grottammare" - così il titolo del capitolo - il monaco non riserva che poche pagine, licenziando in tal modo un argomento particolarmente importante ed insidioso, che avrebbe certamente messo in serio pericolo la sua credibilità. La principale preoccupazione legittima che ossessiona il Mostardi e tutti i discepoli della scuola delle "prove geometriche", è la presenza della lapide di Adriano nella chiesa di San Martino di Grottammare, testimonianza che, con i ruderi romani antistanti, comproverebbe l'esistenza stessa del Tempio della dea in quel sito. Tutti costoro hanno negato e negano assolutamente tale possibilità, nonostante che ancora oggi essi non siano stati in grado di presentare una sola valida prova per dimostrare il contrario, dopo oltre duecento anni di sterili polemiche e vane ipotesi.
Il Mostardi sferra il suo primo attacco critico all'umanista Nicola Peranzoni, il quale, con l'opera "De Laudibus Piceni" segnalò agli inizi del XVI secolo, primo fra tutti, l'esistenza della lapide all'interno della chiesa di San Martino. Egli sottolinea che, essendo il manoscritto originale disperso, le notizie sulla lapide riferite dall'umanista intorno al 1520 non sono degne di fede, perché appunto non autografe, e quindi probabilmente aggiunte da copisti posteriori (p. 157 del volume Cupra). Dove si andrebbe a finire se si volesse ricostruire la storia solo con opere autografe? Abbiamo forse gli autografi di Giulio Cesare? Forse il Mostardi durante i suoi studi in seminario si è addottrinato su Bibbie autografe? Forse ha consultato gli autografi di Strabone e Plinio per scrivere la sua "Cupra"? Secondo questa critica allora si dovrebbe rimettere in discussione tutta la storia. In ogni caso, tutte le pubblicazioni "non autografe" dell'opera del Peranzoni riferiscono sempre la stessa versione, assicurando così una certa coerenza della tradizione storica. Al contrario, è possibile dubitare di un'opera non autografa quando esistono versioni diverse e discordanti.
Da buon allievo del Colucci, il Mostardi, pur senza presentare alcuna prova o testimonianza valida, ripropone la stessa lezione confezionata dal suo maestro:
  • I) - Quella di considerare il tempio un santuario urbano, appunto perché "la dea Cupra è stata sempre venerata quale dea urbana".
  • II) - Il solito trasferimento della lapide, dalla Civita di Marano a San Martino di Grottammare, ipotizzando tale trasloco avvenuto o alla fine del XV secolo per opera di qualche alto prelato, o, più probabilmente, alla fine del secolo successivo (pp. 158-159 del volume Cupra).
    In verità queste sono tutte congetture che nulla hanno a che fare con la ricerca storica o l'indagine archeologica. Tralasciando le assurdità della "dea urbana" - già discusse nella precedente - riguardo al trasferimento della lapide, risulta che in quei secoli citati dal Mostardi (XV-XVI), la chiesa di San Martino era abbandonata e abbisognava di restauri. Nelle Collationes (Archivio Arcivescovile di Fermo, carta 84 r) il Vescovo Giovanni desiderava nel 1414 che fosse fatto un restauro alla chiesa fatiscente; altro importante documento inedito datato 1483, di cui parlerò dettagliatamente nella "Opposizione VIII", ci riferisce invece che alcuni oggetti sacri appartenuti all'abbazia di San Martino, erano custoditi nella chiesa di San Giovanni di Grottammare (sicuramente perché la prima era in disuso); altra relazione di una visita pastorale compiuta nella chiesa dal vescovo Maremonti nel 1573, ci informa che questa aveva bisogno di urgenti lavori. Tutto questo dimostra che un trasloco della lapide in quei secoli citati dal monaco fosse assai improbabile. Il Mostardi ci rivela anche che nel 1494 la chiesa dei Santi Basso e Margherita ebbe un totale rifacimento, quindi, se la lapide di Adriano in quel tempo era a Marano, non si capisce perché non sia stata collocata lì, ma trasferita in una chiesa abbandonata, fatiscente e per di più lontana circa 6 km.
    Altra considerazione fondamentale, secondo il Mostardi, sarebbe quella che il tempio non poteva essere collocato a San Martino di Grottammare perché "regio precutiana" e non "regio palmensis", territorio quest'ultimo della Civita di Marano, dove sorgeva la Cupra Maritima romana; scrive quindi: "Non è possibile che i cuprenses avessero un tempio alla loro dea tutelare e titolore, fuori del loro ager e perfino fuori della loro regione". È bene ricordare che la suddivisione dell'Italia in 11 regioni fu fatta dall'imperatore Augusto verso la fine del I secolo a.C., e che il Piceno era la "V regio", suddivisa a sua volta in tre comprensori o ager: Palmensis, Pretutianus, Hatriano. È altresì noto che il culto della dea Cupra era praticato nell'antico Piceno almeno dall'VIII secolo a. C.; i piceni, in quel tempo remoto, oltre a non avere città vere e proprie, in quanto vivevano in villaggi di capanne sparsi, non avevano nette suddivisioni territoriali e amministrative come in epoca romana. Quando nel 127 d.C. l'imperatore Adriano ricostruì l'antico tempio della dea, lo riedificò dove era sempre stato, senza preoccuparsi, al contrario del Mostardi, delle astratte delimitazioni giuridico-amministrative del territorio. Il monaco termina la sua non lunga indagine dicendo un'altra serie di ridicolaggini sui ruderi prospicienti la chiesa di San Martino, offrendo poi alla medesima un premio di consolazione: riconosce sul luogo l'esistenza di un tempietto agreste dedicato a un Dio minore (pag. 161 del volume Cupra), per alcuni sciocchi, una "dependance" di quello della Civita.
    Il fatto strano di quanto finora detto è che molti "autori cuprensi" abbiano considerato e considerino tuttora queste strampalate ipotesi come dati di fatto, dogmi che non hanno bisogno di riflessioni critiche o prove. Certa fu Patrizia Fortini , affermando tra l'altro che i ruderi di San Martino erano di epoca medievale; sicuro fu Nereo Alfieri , il quale, avvalendosi degli studi della Fortini, giunse alle stesse conclusioni, convinto anche del trasferimento della lapide di Adriano. Ma la corona d'alloro di tutti questi studi congetturali, il Mostardi la consegue nella sua esemplare descrizione del tempio della dea Cupra, in realtà un colossale pasticcio pervenuto ed accettato sino ai nostri giorni. Egli è assolutamente certo di aver identificato il santuario della dea nei pochi resti murari situati sul colle Morganti, posto subito a sud della Civita di Marano, e dà una completa descrizione dei ruderi rileggendo gli scritti del Colucci (Antichità Picene, vol. III). Il Mostardi vi riconobbe tutte le fasi costruttive dell'edificio templare, dalle fondamenta protostoriche a quelle romano-adrianee (pp. 129-132 del volume Cupra), fraintendendo completamente gli scritti del Colucci; infatti quest'ultimo, nella sua opera, descriveva sì gli scavi compiuti dal pievano Trenta, ma quelli alla Civita, su quell'area oggi chiamata "foro", dove i più vi hanno riconosciuto la curia o basilica, posta di fronte agli attuali resti di una costruzione templare (scalinata-podio-archi), e non quelli sul colle Morganti. La confusione creata dal Mostardi ha tratto in inganno la maggior parte degli "autori cuprensi": a cadere in fallo è la studiosa Fortini, la quale, non accorgendosi del totale pasticcio compiuto dal suo maestro, ripropone la stessa versione (pp. 10-15 dell'opuscolo Cupra Maritima). Lo studio di quest'ultima, poi, confonde ancora l'Alfieri e addirittura storici accorti come Gianfranco Paci. Quest'ultimo, tuttavia, pur accettando la tesi confusionaria Mostardi-Fortini, riconosce con "rammarico" l'inesistenza delle prove sul trasferimento della lapide ed auspica nuove indagini sull'altura del colle . Il Ciarrocchi, al contrario, sembra che abbia letto attentamente il Colucci; riguardo ai resti murari sul colle Morganti scrive: "...Né le dimensioni del luogo, né l'andamento delle strutture esistenti possono far supporre l'ubicazione qui del tempio della dea Cupra, il quale inoltre non può essere identificato nell'edificio scavato nel 1774 dal pievano Angelo Trenta e del quale parla il Colucci ... Il colle Morganti ha tutte le carte in regola per essere considerato l'area dell'acropoli" . È nel foro della Civita che egli riconosce i ruderi del tempio restaurato da Adriano, precisamente nel complesso "scalinata-podio, archi e criptoportico", posto nel lato ovest del foro, (Capitolium? tempio di Venere?), estendendo la ristrutturazione adrianea a tutto il complesso. In realtà tutti gli studiosi hanno escluso la possibilità che tali resti siano quelli del noto tempio. In un suo studio più recente , aggiunge che i pochi ruderi visibili nel lato est del foro, dove appunto scavò il Trenta nel 1774, sono i resti di una basilica romana, accettando così in linea di massima le conclusioni del Gamurrini (curia) e quelle più recenti del Catani (basilica giudiziaria).
    Secondo quanto abbiamo rilevato sino a questo punto, la confusione regna sovrana. Il tempio di Adriano non è identificabile nelle muraglie poste sul colle Morganti (Acropoli?), né sui pochi ruderi scavati dal pievano Trenta alla Civita (Curia o Basilica?), né tanto meno sugli avanzi templari situati nel lato ovest del foro (scalinata-podio, tempio di Venere?), la cui tipologia edilizia rimanda all'epoca augustea, ipotesi già scartata sin dal 1877 dall'Ispettore delle Antichità G. B. Carducci. Ma allora dove sarebbe ubicato il tempio della dea Cupra secondo gli "autori cuprensi"? Tutti costoro, oltre ad essere incerti, sembrano in totale disaccordo; ognuno, imbastendo nuove fantasie, tenta con infelici ipotesi di localizzare il tempio in un punto della Civita o dell'agro maranese, facendo delle prove uno strumento non necessario, l'importante è far quadrare i conti anche se non tornano, questo sembra il loro punto di arrivo. La risoluzione della "vexata quaestio" del tempio, sembra essere ancora accreditata dalle conclusioni degli archeologi Gian Franco Gamurrini e Innocenzo Dall'Osso e dallo storico Giuseppe Speranza, accettata dagli archeologi Ignazio Messina, Concezio Rosa, Giacomo Boni e dall'architetto Giuseppe Sacconi, i quali, unanimi, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, stabilirono su dati di fatto la collocazione del tempio della dea Cupra a San Martino di Grottammare.
    Sarebbe ormai opportuno che tutti gli "autori cuprensi", prima di pubblicare un nuovo studio sul tempio, presentino prove concrete o documenti veritieri, i quali primamente dimostrino che il santuario della dea Cupra non fosse collocato a San Martino di Grottammare, e che la lapide di Adriano vi fosse appunto trasferita. A meno che, per citare ancora il Polidori, "... Scavando più innanzi ne' divisati siti, trovato non aveste ancora voi una qualche tavoletta coll'epigrafe: qui giaceva il tempio della Dea Cupra".

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