disegno di A.M.Aloisy Chiesa di San Martino
Tempio della Dea Cupra
lapide del restauro adrianeo

L'immorale Dea Cupra
IL TEMPIO DELL'INGANNO
La vera faccia della storia- ricerche artistiche
(dal mensile RIVIERA DELLE PALME, n°2/1999)
di Luigi Girolami

Caro direttore,
l'occasione per riparlare della scottante faccenda del tempio della dea Cupra (o di Venere come dicono molti) viene da alcuni recenti articoli che ho letto in varie riviste locali. dove si dice che il luogo di culto pagano sarebbe esistito nel colle della Civita di Marano. Non è la prima volta che lo sento, specialmente da fonti cuprensi, ma non è quello che dicono i documenti, di cui non si può non tenere conto prima di comporre la più modesta delle patrie memorie. Io credo che solo sui documenti gravi la responsabilità delle affermazioni, e più le informazioni sono esatte e più gli spazi di affermazione sono grandi. Sarebbe opportuno quindi battersi per lo svecchiamento dei modelli obliterati di fare storia. che alla nostra formazione culturale hanno sempre giovato poco. senza dubbio. specialmente quando questi si piegano alle mode del momento. Caro direttore, me lo consenta, anche in ambito culturale l'ascolano è il paese delle stalle aperte e dei buoi fuggiti, visto che le critiche si adottano solo quando i disastri sono stati compiuti. Ma andiamo avanti. Le teorie del versante cuprense, non aderenti alle rigide regole della critica ma solo a una certa convinzione non fondata, confermano l'urgenza di una revisione storica che consenta a tutti di parlare una sola lingua. E la via obbligata per raggiungere tale risultato è l'accettazione di una nuova straordinaria testimonianza che in questa sede, per la prima volta, desidero rendere di pubblico dominio. Anzitutto una precisazione: che l'area collinare della Civita non possa corrispondere a quella della struttura sacrale del tempio della dea Cupra è una verità lapalissiana, vuoi perché la consapevolezza di penuria archeologico-epigrafico-votivo non consente tale ubicazione e vuoi perché i documenti più antichi non si riferiscono a tale area. Ad esempio, ed è solo l'inizio, le genti che migliaia di anni fa abitarono l'antica terra di Cupra avevano gli altari sulla spiaggia e non sulle alture (et quis litoreae fumant altaria Cuprae, G. Conta, Asculum II, pag. 543).
manoscritto di Angelo Rocca - 1575

Il tempio romano. con i suoi simulacri pagani e il suo altare fumante d'incenso. non bisogna trovarlo come una pepita d'oro nell'immensa miniera della storia Picena, dal momento che esso è sempre esistito nell`agro di Grottammare. Infatti una cronaca inedita del 1575 redatta al tempo del governatore fermano Giacomo Buoncambi, ripercorre con puntuale analisi quelle che erano le conoscenze storiche tradizionali del castello e le convinzioni degli abitanti e degli eruditi dell'epoca facendo emergere dettagli inediti che sconvolgono ipotesi e financo teorie che oramai sembravano acquisite. Ecco il brano della cronaca - nemmeno immaginata dagli studiosi locali - che fa ridiventare presente il passato. la radice della verità capace di alimentare la memoria nel tempo attuale: Grotte à mare è Terra Marittima esposta assai alli rubamenti dei Corsari, così detta per esser sotto una ripa. In latino è detta Criptae maritima, et hebbe origine dalla Dea Cupra marina, cioè Venere, come dicono molti, i quali vogliono che quivi havesse già il suo domicilio: essendoci quivi sin al di d'hoggi il suo Tempio rifatto da Traiano Imperatore dopo la destruttione che fecero i Ghoti, per tutta quasi Italia: e hora chiamasi S. Martino Abbatia del Vescovo di Fermo. Nella qual chiesa trovasi hoggidi una pietra in un altare che ha scolpite queste parole: IMPERATOR CAESAR DIVI TRAIANI PARTHICI F.D. NERVA NEP. TRAIANUS HADRIANUS AUG. PONTIFEX MAX TRIB. POTESTAI XI COS. III MUNIFICENTIA SUA TEMPLUM DEAE CUPRAE RESTITUIT. Ad abbundantiam più avanti si legge: questa terra dicesi essere stata fabricata dalla detta Dea Cupra. Ma c'è di più. La prosperosa condizione economica del territorio, assicurata complessivamente da giardini d'arancio, fontane, grano, oliveti, vigneti e una vasta produzione di lino che garantiva ampi orizzonti commerciali in tutto il Piceno fino alla Fiandra, autorizzava con forza a dire che quivi hebbero il dominio Venere et Arachne, la mitica tessitrice della Lidia che sfidò e vinse nella sua arte Minerva, la quale si vendicò trasformandola poi in un ragno (BAR, Ms. 685, FTG, cc. 37v-39).
La scarsa conoscenza della storia generale portò comunque il cronista a un errore grossolano di cronologia. quando vergò che Traiano fece restaurare il tempio distrutto dai Goti: il che non vuol dire che tutto il resto è inattendibile. Vorrei adesso far notare che non è senza importanza il fatto che il nostro cronista, autore di ben 34 monografie (Ascoli, Offida, Fermo, Ancarano, Macerata, Montefortino, Amandola, Montelparo, S. Elpidio, S. Vittoria, Teramo, Atri, Pescara, Loreto, Ancona, ecc.), abbia scritto a chiare lettere di aver visto il Tempio (non i ruderi), vale a dire la caratteristica sovrapposizione dell'abbazia di S. Martino sui corpi di fabbrica del santuario pagano dedicato a Cupra (= Venere), che secondo l'inveterata costumanza dei primi evangelizzatori non venne dei tutto cancellato affinché potesse trasmettere ai fedeli un forte significato simbolico dell'afferrnazione completa dei Figlio dell'Uomo sul culto dell'immorale dea (nota bene: nell'ambito dello sterminio del paganesimo, i templi della dea Venere subirono feroci smantellamenti). A questo punto una menzione va senz'altro dedicata ai luoghi cristiani e alle rovine pagane che in Italia si affiancano, convivono e si sovrappongono in suggestive e incantevoli soluzioni spaziali: S. Gregorio (Ascoli), S. Sofia (Padova), S. Ansano (Spoleto), S. Urbano (Roma), S. Maria in Minerva (Assisi), S. Lorenzo in Miranda, ecc. L'inizio del processo di sovrapposizione degli edifici cristiani su quelli di più antica religione rimonta alla fine del IV secolo, allorché le ordinanze imperiali di Arcadio e Onorio decretarono punibile il culto pagano e sancirono la distruzione e il riutilizzo dei templi deII'inganno (per dirla con Costantino il Grande), specialmente quelli dispersi nelle aree campestri (cfr. K. BihImeyer-H.TuechIe, Storia della Chiesa, vol. I, pp. 249-261 ).
Chiusa la parentesi e rientrando in seminato. Va anche segnalato che il nostro cronista. nel suo lavoro itincrante di ricerca storica, è molto preciso nel distinguere le vestigia insignificanti dagli alzati imponenti dei templi. Ad esempio per il castello di Ancarano egli ebbe a scrivere: Ancarano è detto dalla dea Ancaria che dicesi haver havuto quivi il suo domicilio, come si congettura da certi vesigi intorno alla chiesa, che al di d'hoggi è neIl'istesso luogo (BAR, Ms. 685, FTG, c. 60). Sempre per quel che concerne la dea Ancaria, venerata esclusivamente dagli ascolani, si è potuto notare come la ricerca degli specialisti sia stata infruttuosa sia per il materiale archeologico che per le documentazioni archivistiche. I dati attualmente disponibili risultano infatti limitati a quelli derivanti dalla tradizione e dalla toponomastica. G. Conta si esprime ad esempio così: nel territorio e nel paese di Ancarano, dove secondo la tradizione si sarebbe trovato il famoso tempio dedicato alla dea Ancaria, non sono mai stati fatti rinvenimenti tali da testimoniare l'esistenza di un complesso culturale (Asculum II, pag. 293). Oggi, invece, grazie al presente contributo, possiamo tratteggiare la storia della chiesa castellana di S. Maria della Pace fondata sopra le macerie scomparse del santuario della dea Ancaria, per i consueti scopi religiosi, al fine di cancellare ogni residuo votivo della superstiziosa cultura pagana. Da Ascoli a Grottammare, dunque, tutte le più importanti sedi culturali furono riutilizzate dai cristiani in ossequio alle leggi imperiali e alla tradizione (Vesta, Ancaria, Cupra, ecc.).
Tornando a Grottammare. c'è da dire che nel XVI secolo nessun studioso individuava la localizzazione della sede votiva della dea Cupra nel Comune di Marano
decreto di cambio Marano-Cupra Marittima

, che solo dopo l'unificazione italiana sotto la corona sabauda assunse la nuova denominazione di Cupra Marittima (il moderno toponimo e la soverchiante presenza delle vestigia romane non autorizzerebbe a trasferire automaticamente in quel territorio un valore storico di Grottammare).
Il cronista, appassionato di vicende locali, non raccolse infatti nessuna tradizione votiva proveniente dal vicinissimo castello di Marano. nel cui circondario, come si è detto, abbondavano sceneograficamente emergenze architettoniche di origine romana. Nessuna voce, a quanto pare, cedeva alla tentazione di collocare idealmente da quelle parti il sacello cuprense. E con questo, lo si voglia o no, tutti gli studiosi moderni devono fare i conti. Ma l'elemento senz'altro più interessante è costituito dal fatto che la lapide commemorativa della ristrutturazione del tempio si trovasse originariamente incastonata nell'altare della chiesa, una garanzia della celebrazione trionfale dei cristianesimo sull'idolatria locale: sarebbe meglio dire che i fondatori di S. Martino, cioè gli uomini del vero Dio, seguendo una consuetudine antichissima sistemarono nella tavola liturgica del sacrificio della Messa la testimonianza più eloquente del paganesimo cuprense, a simbolo visibile e perpetuo della vittoria del Re dei re sulla divinità femminile del mondo politeista. Più tardi, comunque, la lapide sarebbe stata rimossa dalla sacra mensa e collocata in una specie d'icona sostenuta lateralmente da due colonnette sopra le cui basi appoggia la lapide medesima con sopra un architrave di grossa pietra, ciocché fa conoscere la gelosia che si è sempre avuta di custodirla e di conservarla (V. Rivosecchi, Grottammare, pag. 23). In seguito, purtroppo, maturò la decisione di murarla in un altro punto della chiesa, sopra un rocchio basamentale di colonna che in origine sosteneva il tempio: un errore che da una parte diede il sapore di posticcio al manufatto lapideo e dall'altra sortì effetti dubitativi circa l'originaria provenienza dell'iscrizione, donde tutta quella congerie di dissertazioni aprioristiche e arbitrarie che lasciamo al riposo dei loro secoli. Nel frattempo il popolo continuava a prelevare i materiali esterni e periferici dell'antico sito pagano, per impiegarli in altre strutture: e a ciò va imputato l'impoverimento progressivo dell'antico tempio cuprense. Ma una piccola attività di ricerca del 1783 portò alla luce frammenti di reperti monumentali del tempio neí contorni di San Martino, consistenti in vari capitelli di pietra lavorati a bassorilievi e capitelli di pilastri (ivi).
Caro direttore, certamente tutta questa scomoda verità innescherà polemiche e dibattiti che rimbalzeranno su libri e riviste, ma mi sembrava doveroso farla conoscere a tutti per sgombrare il campo dalle affermazioni che si collocano all'opposizione della nostra storia. Da ultimo alcune curiosità di rimbalzo sulle chiese grottesi. Il cronista summentovato attesta che a Grottammare sonovi anco sopra uno scoglio in mare certe vestigia di chiesa [S. Nicola a mare] che prima forse doveva essere in terra ferma vicino all'acqua marina. Vi è anco una chiesa chiamata S. Maria deí monti dove per li molti miracoli da tre anni in quà è un concorso grandissimo di gente (BAR, Ms. 685, FTG, e. 38v).
Dunque Grottammare era anche terra di eventi prodigiosi capaci di coinvolgere, trasformare e risvegliare alla fede uomini e donne di ogni località, come ai tempi della prima plebaglia cristiana di Cupra, che si offriva alla nuova religione salvifica rigettando ogni forma ancestrale di rito idolatrico. Ma il cronista, al quale siamo debitori, parla pure del famoso dono dell'assoluzione plenaria concesso da Alessandro III (e non da altri papi) all'abbazia di S. Martino. Le sue notizie minute e non corrotte, risalgono ai tempi di Federico Barbarossa e contrastano con tutta Ia narrazione storica sin quì formulata. Egli infatti attesta: In questa chiesa al tempo d'hoggi [1575] si celebra l'anno Santo (sol più tardi detto "Sacra" come fosse in Roma, ogni volta che il primo giorno di luglio viene di Domenica, et questo dono pretiosissimo fu lasciato da Papa Alessandro III, il quale fuggendo il furore di Barbarossa si n'andò sconfitto a Venetia, dove fu rintronato nel convento della Charità tra più in li famegli che ve fossero, onde riconosciuto fu rimesso in sedia di quel serenissimo et christianissinio Senato... Andando dunque il detto papa alla volta d'Ancona per ritornare a Roma fu assalito da una tempesta di mare, et gittando alla drittura di detta Abbatia alla quale per memoria diede il detto dono dell'indulgenza (ivi, cc. 38-38v). Da questa descrizione, peraltro incontestabile per il suo tenore aderente alle conoscenze tradizionali, risulta chiaro che il pontefice concesse il privilegio dell'indulgenza ai religiosi di S Martino per il solo motivo di essere riuscito a riparare quel primo luglio nell'abbazia grottese, scongiurando il terribile sinistro del naufragio. Inoltre il cronista non cita nessun approdo con manifestazioni di giubilo, magnificenza e grandiosità; e neppure la Festa della Sacra alla quale Alessandro III avrebbe assistito (per le altre tesi cfr. V. Rivosecchi, op. cit., pp. 59, 123, 229-237, 328 e 329; La Conchiglia, settembre 1995 pp. 10- 12).